martedì 20 gennaio 2009

GOD BLESS AMERICA

Oramai ha giurato.

Alle 18, ora italiana, davanti a un cielo sgombro di nuvole e a due milioni di persone, il nuovo presidente Barak Obama è entrato ufficialmente in carica.

Non è importante sapere o anlizzare quel che farà, se manterrà le promesse, questo lo lasciamo agli analisti che fanno questo per lavoro.

Contano i simboli.

Sulle pendici del Mall, tra il Lincoln Memorial e Capitol Hill, è andata in onda la storia.

Quando Aretha Franklin ha cominciato a cantare "My Country 'tis of Thee", il vecchio inno del XIX secolo con in testa un cappellone di strass a ricordare le acconciature degli schiavi afroamericani, è stato il segno che la storia stava cominciando a mutare. Le fotocamere inquadravano gli sguardi di donne, uomini, bambini e bambine di colore, occhiali appannati dalle lacrime, anni di insulti, di contumelie, di discriminazioni che riapparivano in un amen. Quanti ricordi, quante lacrime.
Da domani tutto questo non scomparirà per magia ma forse si potrà guardare il futuro con più ottimismo.

Il giuramento compiuto sulla Bibbia di fronte al giudice della Corte suprema, "So Help you God?", "So Help me God", è il miglior augurio per un giovane presidente incaricato di riportare gli Stati Uniti al centro di un mondo forse non migliore, ma almeno diverso.

venerdì 28 novembre 2008

GENOVA HA I GIORNI TUTTI UGUALI



Da "La Repubblica" di oggi, scrive Giuseppe D'Avanzo:

"L'asimmetria è manifesta.

Se partecipo a una manifestazione di piazza e pochi o molti violenti scatenano una guerriglia urbana, anch'io, che pacificamente ho aderito all'iniziativa, sono responsabile per la polizia di quella guerriglia.

Se, al contrario, ho addosso una divisa di poliziotto, il criterio che stringe in un solo nodo, con le stesse responsabilità, e i pacifici e i violenti non vale più.

Anche se sono in servizio in una caserma dove si torturano gli arrestati, anche se sono nella stessa stanza a pochi metri da quel castigo ingiusto, non mi può essere attribuita la responsabilità dei trattamenti inumani inflitti da altri.

No, occorre che ogni gesto degradante (naturalmente provato) abbia un suo responsabile diretto (naturalmente identificato in modo inequivocabile).

Una fortunata coincidenza ci mette sotto gli occhi, nelle stesse ore, gli esiti del nuovo "diritto diseguale".

A Roma il procuratore generale della Cassazione definisce "deviata" una cultura poliziesca che, identificando una persona che partecipa a una manifestazione, le attribuisce "tutti i reati commessi durante la manifestazione" (è accaduto l'11 marzo 2006 a Milano, in Corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista).

A Genova diventano pubbliche le motivazioni per le torture della caserma di polizia di Bolzaneto durante i giorni del G8, tra il 20 e 22 luglio 2001. E si legge che - non c'è dubbio - le violenze, le umiliazioni consumate in quella caserma e "pienamente provate avrebbero potuto ricomprendersi nella nozione di "tortura" delle convenzioni internazionali". Ma in Italia quel reato non c'è e allora bisogna accontentarsi di descrivere quelle prepotenze come "condotte inumane e degradanti".

Sono comportamenti "che hanno tradito il giuramento di fedeltà alle leggi della Repubblica italiana e alla Carta Costituzionale, inferto un vulnus gravissimo, oltre a coloro che ne sono stati vittime, anche alla dignità delle forze della polizia di Stato e della polizia penitenziaria e alla fiducia della quale detti Corpi devono godere nella comunità dei cittadini". Epperò, dall'accertamento delle condotte vessatorie "non discende automaticamente che, di quelle condotte, debbano necessariamente rispondere tutti gli imputati". Ne risponderanno individualmente soltanto i responsabili diretti.

"Purtroppo la maggior parte di coloro che si sono resi direttamente responsabili delle vessazioni risultate provate in dibattimento è rimasta ignota. Scrivono i giudici: il limite di questo processo è rappresentato dal fatto che quei nomi, quelle facce, gli aguzzini non sono saltati fuori "per difficoltà oggettive, non ultima delle quali la scarsa collaborazione delle Forze di Polizia, originata, forse, da un malinteso "spirito di corpo"".


Non c'è dubbio che il procuratore generale della Cassazione e i giudici di Genova abbiano ragione: la responsabilità penale deve essere personale. C'è però una differenza non trascurabile: da un poliziotto ci si attende una leale collaborazione nell'accertamento dei fatti, non "spirito di corpo", non complicità, non omertà. Quei poliziotti, che hanno violato la Costituzione nelle vie di Genova, alla Diaz, a Bolzaneto avrebbero dovuto essere trascinati dinanzi al giudice dai loro stessi commilitoni.

Al contrario, la storia dei processi di Genova è una parabola sempre uguale di connivenze, silenzi, reticenze, favoreggiamento, fughe dal processo come quella promossa proprio in questi giorni da un questore accusato di falsa testimonianza con l'allora capo della polizia Gianni De Gennaro.

Se la polizia vuole finalmente chiudere con la verità una pagina di vergogna della sua storia, come ha promesso di fare il capo della polizia Antonio Manganelli, non ha che da rendere concreto il suo impegno accompagnandolo con l'agenda ragionevolmente proposta dal "Comitato verità e giustizia per Genova". Scuse formali dei vertici dello Stato alle vittime degli abusi e a tutti i cittadini; collocazione immediata dei condannati a ruoli che non comportino una relazione diretta con i cittadini; massima collaborazione con la magistratura per le inchieste ancora aperte.

Da parte sua, il Parlamento discuta al più presto proposte di legge di "riforma" delle forze di polizia: l'obbligo per gli agenti in servizio di ordine pubblico di indossare codici d'identificazione; l'istituzione di un organismo indipendente cui denunciare eventuali abusi delle forze di sicurezza. Sono strumenti diffusi in molti paesi europei.

Si può concordare che "l'esperienza di Genova dimostra che il nostro paese ne ha bisogno".

giovedì 27 novembre 2008

FATALITA'...


Così ha detto il presidente del consiglio a proposito del crollo del liceo "Darwin" di Rivoli nel quale ha trovato la morte Vito, il giovane diciassettenne.
Fatalità, nel 2008 per una fatalità un controsoffitto può cadere all'inizio della terza ora su un gruppo di adolescenti liceali.
Si parla spesso di indicibilità delle tragedie e questa forse è una di quelle occasioni. Il pensare che un ragazzo, all'alba della sua vita, non ancora uomo debba vedere finir tutto per una situazione simile mi fa veramente accaponare la pelle.
Per molti aspetti.
Non ultimo quello di osservare i compagni di classe di Vito messi davanti, ancora giovani, alla tragedia della morte, alla scomparsa di un ragazzo con il quale fino a pochi minuti prima si scherzava e si rideva.
Le immagini del funerale, la maglietta di Legrottaglie sulla bara e la lettera scritta dalla sorella e letta dal pulpito rappresentano un pugno nello stomaco che veramente ti leva il fiato.
Così come la più grande tragedia: quando i genitori sopravvivono a un figlio.
E di fronte a questo ogni parola appare inutile.

martedì 18 novembre 2008

ASPETTA E SPEER


Dal blog di Gabriele Romagnoli, notista de "La Repubblica":
"A Parigi incontro S.
E' di passaggio: nato a Barcellona, vive a New York.
Poiché sotto il portone di casa mia c'è una targa alla memoria di Raoul Nadet, ucciso a Mathausen, prima di congedarmi la indica e dice: "Anche mio padre è morto in un lager".
Restiamo lì, nella sera d'autunno.
Lui aggiunge: "Mio zio era con lui, ma si è salvato. Dopo la guerra è tornato a Berlino e ha aperto un ristorante. Era un grande chef. Ha avuto una stella della guida Michelin. Ci veniva tutta la gente che contava in città.
Una sera l'aiuto cuoco gli ha chiesto se lo sapeva che un cliente fisso era Albert Speer, l'architetto poi ministro di Hitler. Mio zio l'ha guardato incredulo. Quello ha detto: è di là anche stasera, è l'unico che cena da solo".
"Mio zio controllò dall'oblò della cucina e lo vide.
Stava mangiando il suo dessert più riuscito.
Si lavò le mani e andò in sala.
Si sedette davanti a Speer.
Quello alzò lo sguardo. Era evidente che il dolce gli stava piacendo.
Sorrise.
Mio zio sollevò appena la manica e lasciò vedere i numeri tatuati sul braccio.
Speer spense il sorriso, guardò il dessert con una diversa espressione.
Mio zio lo rassicurò: non era avvelenato".
Poi?
"Poi parlarono per due ore, fino alla chiusura del ristorante. Mio zio voleva solo sapere, capire.
Non disse mai che cosa seppe o capì. Fece domande, ascoltò risposte.
Alla fine Speer pagò il conto, si alzò e se ne andò.
Mio zio tornò in cucina.
Speer non tornò mai più, mio zio vendette il ristorante.
Gli è sopravvissuto.
Ora vive nel Sud della Francia ed è un uomo passabilmente sereno".

lunedì 10 novembre 2008

GENOVA, E' UN'IDEA COME UN'ALTRA


Così scrive Giuseppe D'Avanzo su "La Repubblica" di oggi:


"Uno Stato che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico.

Una polizia che usa la forza non per impedire reati, ma per commetterne, non può essere considerata "forza dell'ordine".

Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici".

Valerio Onida, giudice emerito della Corte Costituzionale.

Sono parole che bisogna tenere a mente ora che il processo per le violenze della polizia nella scuola "Diaz", durante i giorni del G8 di Genova, è prossimo alla sentenza.

Il 21 luglio del 2001 è il giorno più tragico del G8 di Genova. È morto Carlo Giuliani in piazza Alimonda in una città distrutta dai black bloc che riescono inspiegabilmente a colpire indisturbati e a dileguarsi senza patemi. Per tutto il giorno, Genova è insanguinata dai pestaggi della polizia, dei carabinieri, dei "gruppi scelti" della guardia di finanza contro cittadini inermi, donne, ragazzi, anche anziani, spesso con le braccia alzate verso il cielo e sulla bocca un sorriso.

Ora, più o meno, è mezzanotte.

Mark Covell, 33 anni, inglese, giornalista di Indymedia.uk, ozia davanti al cancello della scuola Diaz, diventato un dormitorio dopo che i campeggi sono stati abbandonati per la pioggia.

Covell si accorge che la polizia sta "chiudendo" la strada. Avverte subito il pericolo.

Estrae l'accredito stampa, lo mostra, lo agita. I poliziotti, che lo raggiungono per primi (sono della Celere, del VII nucleo antisommossa del Reparto Mobile di Roma), lo colpiscono con i "tonfa" o "telescopic baton", più che un manganello un'arma tradizionale delle arti marziali: rigido e non di caucciù, a forma di croce: "può uccidere", se ne vanta chi lo usa. Colpiscono Mark senza motivo. Come, senza ragione, un altro poliziotto con lo scudo lo schiaccia subito dopo contro il cancello mentre un altro, come un indemoniato, lo picchia alle costole. Gli gridano in inglese: "You are black bloc, we kill black bloc" ("Tu sei un black, noi ti uccidiamo").

Covell cade finalmente a terra.

E' semisvenuto, in posizione fetale. Potrebbe bastare anche se fosse un incubo, ma per Mark il calvario non è ancora finito. Tutti i "celerini" che corrono verso la scuola lo colpiscono a terra con calci (il pestaggio di Covell è ripreso da una videocamera). Covell rimarrà, esanime, circondato dall'indifferenza, in quell'angolo di via Cesare Battisti, al quartiere di Albaro, per oltre venti minuti. Ha una grave emorragia interna, un polmone perforato, il polso spezzato, otto fratture alle costole, dieci denti in meno. Quando si sveglia in ospedale, viene arrestato per resistenza aggravata a pubblico ufficiale, concorso in detenzione di arma da guerra e associazione a delinquere. (E' ancora aperta l'indagine per individuare i poliziotti che lo hanno quasi ucciso. L'accusa: tentato omicidio).

Distruggere.

Annientare.

E' con questo obiettivo che, dopo aver abbattuto con un blindato Magnum il cancello, le prime tre squadre del Reparto Mobile di Roma (trenta uomini) invadono, a testuggine, il pianoterra della scuola.
Arnaldo Cestaro, "un vecchietto", è sulla destra dell'ingresso.
Viene travolto.
Lo gettano contro il muro.
Lo picchiano con i "tonfa".
Gli spezzano un braccio e una gamba.

Ora ci sono urla e baccano. Nella palestra, ai piani superiori ragazzi e ragazze - anche chi si è già infilato nel sacco al pelo per dormire - comprendono che cosa sta accadendo. Tutti raccolgono le loro cose, il bagaglio leggero che si portano dietro da giorni.

Si sistemano con le spalle al muro; chi in ginocchio; chi in piedi; tutti con le braccia alzate in segno di resa; chi ha voglia di un'ultima "provocazione" mostra al più indice e medio a V. Daniel Mc Quillan, quando vede le divise, si alza in piedi e dice: "Noi siamo pacifici, niente violenza".

"Come se fossero un branco di cani impazziti, sono su di lui in un istante e lo colpiscono, lo colpiscono, lo colpiscono?", dicono i testimoni.

La furia dei celerini si scatena contro chiunque e dovunque, irragionevolmente, con furore (si vede uno che mena colpi con una specie di mazza da baseball). Melanie Jonach racconterà di essere svenuta subito al primo colpo che la raggiunge alla testa. Gli altri, che vedono la bastonatura inflittale, ricordano i suoi occhi aperti ma incrociati, le contrazioni spastiche del corpo. Anche in queste condizioni, continuano a picchiarla e a prenderla a calci.

Un ultimo calcio sbatte la sua testa contro un armadio: ora è "aperta" come un melone. Il comandante del VII nucleo, a quel punto, grida "Basta!". Raggiunge la ragazza. "La tocca con la punta dello stivale. Melanie non dà segni di vita e quello ordina che venga chiamata un'autoambulanza". (Melanie Jonach ci arriverà in codice rosso con una frattura cranica nella regione temporale sinistra). Nicola Doherty ancora piange in aula mentre racconta: "Hanno cominciato a picchiarci immediatamente. C'era gente che piangeva e implorava i poliziotti di fermarsi. Anch'io piangevo e chiedevo che la smettessero. Uno mi è venuto vicino e con fare dolce mi ha detto "Poverina!" e mi ha colpito ancora. Sembrava che ci odiassero. Ho visto un poliziotto con un coltello in mano, bloccava le ragazze, i ragazzi e tagliava una ciocca di capelli con il coltello".

Voleva il suo personale trofeo di guerra. Altri continuano a gridare, dopo aver picchiato duro: "Dì, che sei una merda". Mentre colpiscono gridano: "Frocio!", "Comunista!", "Volevate scherzare con la polizia?", "Nessuno sa che siamo qui e ora vi ammazziamo tutti!".

Lena Zulkhe, colpita alle spalle e alla testa, cade subito. Le danno calci alla schiena, alle gambe, tra le gambe. "Mentre picchiavano, ho avuto la sensazione che si divertissero". La trascinano per le scale afferrandola per i capelli e tenendola a faccia in giù. Continuano a picchiarla mentre cade. La rovesciano quasi di peso verso il pianoterra. "Non vedevo niente, soltanto macchie nere. Credo di essere per un attimo svenuta. Ricordo soltanto - ma quanto tempo era passato? - che sono stata gettata su altre due persone, non si sono mossi e io gli ho chiesto se erano vivi. Non hanno risposto, sono stata sdraiata sopra di loro e non riuscivo a muovermi e mi sono accorta che avevo sangue sulla faccia, il braccio destro era inclinato e non riuscivo a muoverlo mentre il sinistro si muoveva ma non ero più in grado di controllarlo. Avevo tantissima paura e pensavo che sicuramente mi avrebbero ammazzata".

Dei 93 ospiti della "Diaz" arrestati, 82 sono feriti, 63 ricoverati ospedale (tre, le prognosi riservate), 20 subiscono fratture ossee (alle mani e alle costole soprattutto, e poi alla mandibola, agli zigomi, al setto nasale, al cranio).

Che cosa ha provocato questa violenza rabbiosa e omicida?

Come è stata possibile pensarla, organizzarla, realizzarla.

Il 22 luglio, il portavoce del capo della polizia convoca una conferenza stampa e distribuisce un breve comunicato che vale la pena di ricordare per intero: "Anche a seguito di violenze commesse contro pattuglie della Polizia di Stato nella serata di ieri in via Cesare Battisti, si è deciso, previa informazione all'autorità giudiziaria, di procedere a perquisizione della scuola Diaz che ospitava numerosi giovani tra i quali quelli che avevano bersagliato le pattuglie con lancio di bottiglie e pietre. Nella scuola Diaz sono stati trovati 92 giovani, in gran parte di nazionalità straniera, dei quali 61 con evidenti e pregresse contusioni e ferite. In vari locali dello stabile sono stati sequestrati armi, oggetti da offesa ed altro materiale che ricollegano il gruppo dei giovani in questione ai disordini e alle violenze scatenate dai Black Bloc a Genova nei giorni 20 e 21. Tutti i 92 giovani sono stati tratti in arresto per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio e detenzione di bottiglie molotov. All'atto dell'irruzione uno degli occupanti ha colpito con un coltello un agente di Polizia che non ha riportato lesioni perché protetto da un corpetto. Tutti i feriti sono stati condotti per le cure in ospedali cittadini".

Il portavoce mostra anche le due molotov che sarebbero state trovate nell'ingresso della scuola, "nella disponibilità degli occupanti".

Il processo di Genova ha dimostrato ragionevolmente (e spesso con la qualità della certezza) che nessuna delle circostanze descritte dal portavoce del capo della polizia (capo della polizia era all'epoca Gianni De Gennaro) corrisponde al vero.

Quelle accuse sono false, quelle ragioni sono inventate di sana pianta.

Si dice che l'assalto (la "perquisizione") fu organizzato dopo che un corteo di auto e blindati della polizia era stato, poco prima della mezzanotte, assalito in via Cesare Battisti con pietre, bottiglie e bastoni.

Il processo ha dimostrato che non c'è stata nessuna pattuglia aggredita.

Si dice che gli ospiti della Diaz fossero già feriti, quindi coinvolti negli scontri in città. Nessuno dei 93 arrestati era ferito prima di essere bastonato dai "celerini". Poliziotti, comandanti, dirigenti hanno riferito che, mentre entravano nella scuola, c'è stata contro di loro una sassaiola e addirittura il lancio di un maglio spaccapietre. I filmati hanno dimostrato che non fu lanciata alcun sasso e nessun maglio. Il comandante del Reparto Mobile di Roma ha scritto in un verbale che ci fu una vigorosa resistenza da parte di "alcuni degli occupanti, armati di spranghe, bastoni e quant'altro". Assicura che nella scuola (entra tra i primi) sono stati "abbandonati a terra, numerosi e vari attrezzi atti ad offendere, tipo bastoni, catene e anche un grosso maglio".

Nella scuola non c'è stata alcuna colluttazione, nessuna resistenza, soltanto un pestaggio.

Nessuno degli occupanti ha tentato di uccidere con una coltellata il poliziotto Massimo Nucera.

Due perizie dei carabinieri del Ris hanno smentito che lo sbrego nel suo corpetto possa essere il frutto di una coltellata.

Nella scuola non c'erano molotov.

Come ha testimoniato il vicequestore che le ha sequestrate, quelle due molotov furono ritrovate da lui non nella scuola la notte del 22 luglio, ma sul lungomare di Corso Italia nel pomeriggio del giorno precedente.

La prova falsa, manipolata, è stata inspiegabilmente distrutta, durante il processo, nella questura di Genova.

In settimana il tribunale deciderà delle responsabilità personali dei 29 imputati (poliziotti, dirigenti, comandanti, alti funzionari della polizia di Stato) accusati di falso ideologico, abuso di ufficio, arresto illegale e calunnia.

Quel che qui conta dire è che la responsabilità non penale, ma tecnico-politica di chi, impotente a fronteggiare i black bloc, si è abbandonato (per vendetta? per frustrazione? con quali ordini e di chi?) a pestaggi ingiustificati e indiscriminati, non può e non deve essere liquidata da questa sentenza.

Centinaia di agenti, sottufficiali, ufficiali, dirigenti di polizia, funzionari del Dipartimento di pubblica sicurezza hanno mentito durante le indagini e al processo.

E chi non ha mentito, ha negato, taciuto o dissimulato quel che ha visto e saputo.

Dell'assalto alla "Diaz" non inquieta soltanto il massacro di 93 cittadini inermi diventati in una notte "criminali" a cui non si riconosce alcuna garanzia e diritto.

Quel che angoscia è anche questo silenzio arrogante, l'omertà indecorosa che manipola prove;

costruisce a tavolino colpevoli;

nasconde le responsabilità;

sfida, senza alcuna lealtà istituzionale, il potere destinato ad accertare i fatti.

Le apprensioni di sette anni raddoppiano ora che, decreto dopo decreto, si fa avanti un "diritto di polizia".

Il Paese ha bisogno di sapere se il giuramento alla Costituzione delle forze dell'ordine non sia una impudente finzione.


Perché quel che è accaduto a Mark Covell e ai suoi 92 occasionali compagni di sventura rende chiaro, più di qualsiasi riflessione, come uno Stato che si presenta nelle vesti di sbirro e carnefice fa assai presto a diventare uno Stato criminale quando il dissidente, il non conforme, l'altro diventa un "nemico" da annientare".

domenica 2 novembre 2008

DETTO TRA NOI


Così scrive Francesco Bono su "Il Venerdi di Repubblica" a proposito di Ghost che Canale 5 trasmetterà (ma dai...) stasera alle 21.30:
"Vi segnaliamo la scena con Sam e Molly che plasmano dell'argilla, per farci un vaso. Fra le mani di Demi Moore l'argilla suggerisce qualcos'altro!".

mercoledì 22 ottobre 2008

OKKUPATO



Come si usa dire al commissariato o dai carabinieri, letto e sottoscritto.

Da "La Repubblica" di oggi, l'articolo di Carlo Bonini:

"Ora che è stata accesa la miccia, forse diventerà più difficile capire e distinguere.

E, magari, anche ricordare. Perché persino più che a Milano, Torino, Padova - laboratori storici dell'antagonismo - a Roma, i centri sociali sono stati e rimangono un pezzo significativo della sua storia culturale e politica.

A sinistra, come a destra.

Lo dicono i numeri (almeno una cinquantina le sigle).

Lo dice la geografia della loro distribuzione sul territorio.

Dalla periferia occidentale della città (Portuense, Laurentino, Boccea, Trullo), a quella orientale (Monte Sacro, Nomentano, Portonaccio).

Da Nord (Primavalle, Casalotti), a sud (Cinecittà, Tuscolano, Prenestino, Casilino).

Fino al cuore della città (Colle Oppio, Celio, Esquilino, san Lorenzo, Testaccio, Prati).

Lo dice soprattutto una storia cominciata quattordici anni fa quando i "centri" li contavi sulle dita di due mani e si chiamavano "Brancaleone", "Rialto", "Villaggio Globale". Era il 1994 e un giovanissimo Francesco Rutelli, neosindaco, firmava la delibera di "assegnazione degli spazi sociali".

A Roma, l'antagonismo, nelle sue forme politiche e culturali, diventava un luogo del paesaggio riconosciuto.

La "sinistra" e la "destra" sociali, eredi di una tradizione politica che si era storicamente formata non nella battaglia nelle fabbriche ma in quella per il diritto alla casa e dunque nelle occupazioni di immobili dismessi o semplicemente figli dell'abusivismo edilizio, dichiaravano la loro rinuncia a un progetto di conflitto violento e permanente.

In cambio, ne ottenevano tolleranza amministrativa per gli "spazi occupati di autogestione".

Luoghi di separazione in cui coltivare l'idea di "un altro mondo possibile". I neri di "Casa Pound" e "Foro 753" potevano lavorare affacciati sul Colosseo, mentre i rossi di "Brancaleone", "Rialto", "Villaggio Globale" diventavano da laboratorio teatrale, visivo, musicale "off-off", protagonisti della scena culturale partecipando ai bandi comunali per l'estate romana.


Accusata di "entrismo", di eccessiva contiguità con la politica istituzionale da molti centri del nord-est e del nord-ovest, l'esperienza romana, pur nelle sue differenze e diaspore interne, infilava un sentiero che non l'avrebbe mai ridotta o umiliata a "problema di ordine pubblico".

I "centri", con i loro concerti, le loro birrerie autogestite, i loro spazi di disobbedienza antiproibizionista, si moltiplicavano, costituendosi spesso come unici luoghi di aggregazione sul territorio. Ammortizzatori sociali, "sportelli unici" per immigrati.

I "centri" si facevano rete nei quartieri e "directory" on-line nell'offerta culturale della città. Come in un tamburino per cinema e teatri. Nuove occupazioni, dunque, e nuove sigle. "Astra" (Montesacro), "Esc atelier" (san Lorenzo), "Acrobax project" (all'ex cinodromo di viale Marconi). Solo per citarne alcune.

L'iconografia della birra e del "cannone", del cane da "punkabbestia", come ogni semplificazione, accarezzava solo la superficie di luoghi che, negli anni '90, nella dissoluzione dei partiti, erano rimasti i soli indirizzi riconoscibili della politica per due generazioni di liceali e universitari.

Non lo ignora la destra sociale di Storace e Bontempo.

Ne è consapevole Rifondazione Comunista.

Lo annusa "Forza Nuova" che apre un suo presidio in Prati.

Nunzio D'Erme è il primo consigliere comunale di Rifondazione espresso dai "Centri sociali". Scaricherà un camion di letame di fronte a Palazzo Grazioli, la residenza romana di Silvio Berlusconi, e perderà il treno per un seggio a Strasburgo. Ma la sua esperienza è il segno e in qualche modo l'approdo della via romana alla convivenza e al reciproco riconoscimento di mondi che parlano lingue diverse.

Dentro e fuori l'aula consiliare Giulio Cesare. E' il compromesso che consente a Veltroni sindaco di inaugurare le notti bianche mentre i centri espongono uno striscione che ricorda in Campidoglio "le notti bianche del precariato".

Di celebrare le iniziative per ricordare i Mattei, di intitolare una strada a Paolo Di Nella (attivista di destra ucciso a sprangate nel 1983), senza che questo incendi, al di là delle parole, l'area antagonista.

Di trovare un luogo ai neri di "Foro 753", costretti a lasciare il Celio per far posto a un asilo, in cambio di una mediazione continua con Enti Pubblici e privati che impedisca lo sgombero delle "occupazioni di sinistra".

I Centri, insomma, avrebbero continuato a parlare la loro lingua e non avrebbero abbandonato il cuore della loro battaglia politica.

Quella per l'emergenza degli alloggi.

Sullo scranno di D'Erme, nelle ultime elezioni comunali di aprile, sarebbe salito Andrea Alzetta, detto "Tarzan", di "Action".

A Monte Sacro si sarebbe tornato ad occupare.

Ieri, dopo 14 anni di assenza di conflitto di strada, lo sgombero dell'"Horus".

E le parole di un preoccupato prefetto di Roma, Carlo Mosca: "Non c'è nessun tipo di pianificazione. Si tratta di un provvedimento del magistrato e quindi siamo dovuti intervenire. In ogni caso, prima bisogna trovare delle soluzioni per sistemare tutte le persone che occupano".

Forse, la via romana all'antagonismo cominciata 14 anni fa non finirà nello spazio di un pomeriggio".