venerdì 27 giugno 2008

Simple Minds - Mandela Day

Stasera Mtv rende omaggio ai 90 anni di Nelson Mandela con un concerto strepitoso ad Hyde Park.

Il meglio della musica internazionale per festeggiare uno dei pochi rivoluzionari ancora in vita, uno dei pochi rivoluzionari che una volta andato al potere non è caduto nella trappola del totalitarismo e che ha portato il Sudafrica ad uscire fuori dalle tenebre dell'apartheid.

Una persona solare, quante volte lo abbiamo visto ballare con una collana di fiori al collo o con la maglietta degli Spring Boks?

Stasera a festeggiarlo gente del calibro di Annie Lennox, Zucchero, Eminem, Amy Winehouse, Shirley Bassey ma soprattutto i Simple Minds.
Ed è proprio la voce di Jim Kerr che canta questo struggente pezzo suonato a Wembley nel grande concerto del 1988 in favore della liberazione del leader Anc.

E che questa sera oltre a festeggiare i 90 anni di Madiba si ricordi anche il terribile regime segregazionista bianco che incatenò per anni il Sudafrica visto che siamo così sensibili nel ricordare massacri e barbarie commesse da comunisti e fascisti e spesso dimentichiamo tragedie che non hanno un immediato ritorno propagandistico.

'Nkosi Sikelele

giovedì 26 giugno 2008

Take That - Patience


Se qualcuno solo 13 anni fa mi avesse detto che avrei accolto bene una canzone dei Take That lo avrei preso per folle.

Per fortuna si cambia anche idea, non troppo però, vero?

lunedì 23 giugno 2008

Always something there to remind me

Periodo di gran lavoro e quindi mi affido alle parole altrui in quanto il mio cervello è notevolmente impigrito.

A proposito del ritorno di Marcello Lippi sulla panchina azzurra così si esprime Benedetto Ferrara de La Repubblica:

"Se il futuro sarà Lippi vuol dire lanciare come sempre il paese verso il passato, un po’ come il governo.

A quel punto la sinistra tra cinque anni potrebbe ricandidare Prodi, che poi è l’unico di quel giro che ha vinto le elezioni.

Tristezza".

mercoledì 18 giugno 2008

Il Sergente nella neve


La cultura italiana ha perso uno dei suoi massimi rappresentanti, Mario Rigoni Stern.
Il sergente ha chiuso gli occhi nelle sue terre, ad Asiago, dove era nato 86 anni fa.
E'difficile trovare le parole per descrivere la sua importanza per la crescita morale del paese.

Coimunque lascio il racconto a Paolo Rumiz che lo ha ricordato su La Repubblica nella giornata di ieri.

Probabilmente nè Springsteen e nè il testo di questa canzone hanno qualcosa a che vedere con la vita di Rigoni Stern ma è stata la colonna sonora del mio Ipod mentre ieri, in autobus, leggevo questo articolo.

La vita d'altra parte è fatta di sensazioni e io ve ne voglio rendere partecipi.

" «Son tornato vivo da una guerra. Ho avuto una buona moglie e bravi figli. Ho scritto libri. Ho fatto legna. Me basta e vanza. 'Desso posso morir in pase».

Così disse il vecchio quando andai a trovarlo l' ultima volta nella sua casa al limitare del bosco, sull' altopiano di Asiago. Era metà marzo, e lui stava in cucina sulla sedia a rotelle, un maglione di lana grezza addosso, davanti a un piatto di salsicce e patate con un bicchiere di rosso.

Appena toccai la corteccia della mano - la stretta fu forte come sempre - sentii che non stava morendo, ma solo diventando bosco. Fuori era tutto primule e letame, le cinciallegre e i fringuelli sparavano trilli fenomenali, l' ultima neve splendeva, il disgelo marciava alla grande, tutta la natura si svegliava.

Così ricordai quanto mi aveva detto un anno prima. «La primavera è la stagione giusta per partire, perché sai che la vita continua».

Ma per me il tempo del Mario era l' inverno. Quando nevicava, il primo pensiero era per lui. Ovunque fossi, cercavo la direzione dell' altopiano e dicevo tra me: il vecchio sarà contento, si sarà fregato le mani, avrà buttato altra legna sul fuoco. Insomma, Mario c' era, stava lassù, ed era bello saperlo. Era la garanzia che non tutto era perduto, la natura stava ancora nei binari. «Sono nato alle soglie dell' inverno - così esordisce il suo libro dedicato alle stagioni - e la neve ha accompagnato la mia vita. All' asilo infantile le suore ci avevano insegnato una canzoncina che diceva di un bambino che dormiva in una culla e di una vecchia che cantava, il mento sulla mano: «Nel bel giardino il bimbo s' addormenta / la neve fiocca lenta lenta lenta».

La Bianca Signora gli aveva portato via i compagni in Russia, ma non la odiava per questo. Quando turbinava in silenzio, usciva arruffato e felice, guardava la radura con quella foresta di capelli matti da giovanotto, barba gelata dal fiato, occhi umidi da cane pastore, poi andava a rovistare in legnaia. Per lui l' inverno era «la tavola grande dove si sta in tanti», gli sci in spalla, la dispensa piena, le corse e le capriole nella neve. Era soprattutto il tempo della scrittura, della memoria e del racconto. D' inverno vivi e morti si avvicinavano, il Sergente nella Neve tornava, le porte del cielo erano spalancate. Aveva capito tutto: la montagna è l' ultimo baluardo, l' ultimo serbatoio di risorse in un mondo dilapidato. Sapeva che va difesa a ogni costo, e lui lo faceva: s' era buttato nella sfida con passione civile, a ottant' anni suonati, intervenendo sulla stampa nazionale contro la strategia dell' abbandono. «Il mondo che stiamo vivendo è fatto per consumare - ripeteva - ma consumando consumiamo anche la natura, e quindi l' uomo». Un giorno s' è augurato di «vivere abbastanza per vedere il mondo rinsavire un po', con la fine degli sprechi, delle cose inutili, del chiasso, delle luci artificiali che nascondono le stelle».

Senza il suo magistero morale, ora la battaglia per la sopravvivenza di quest' ultimo pezzo di mondo incontaminato diventa più difficile. Oggi non è solo la letteratura che perde un protagonista; è anche la montagna italiana che perde un difensore.

Mario nasce ad Asiago nel novembre del 1921, tre anni dopo la fine della guerra che ha devastato l' Altopiano. E' quello il Grande Evento fondativo della sua immaginazione. Ha radici profonde; una storia di famiglia lunga mille anni, tutta lassù, tra i liberi Comuni dei Cimbri.

Vive un' infanzia brada, in compagnia dei pastori delle malghe. A diciassette anni, va alla scuola militare alpina di Aosta, dove scopre la grande montagna. Ma è subito la seconda guerra, l' aggressione alla Francia e la campagna di Russia con le scarpe di cartone.

Nella ritirata compie quello che definisce «il capolavoro della vita»: una notte parte dal Don con settanta alpini e cammina verso occidente nella bufera, sganciandosi dal suo caposaldo senza perdere nemmeno un uomo.

Torna a casa, ma dopo l' 8 settembre viene catturato dai tedeschi e spedito in un campo di lavoro in Masuria, a Nordest di Varsavia. La prigionia non è solo il tempo della fame e del patimento. E' anche il tempo della scrittura. Il suo cammino letterario comincia lì, in una baracca «buia, gremita e maleodorante» sui laghi gelati fra Polonia e Lituania, sotto un cielo pieno di stelle. Accanto al tavolaccio senza paglia che gli fa da branda, ha uno zaino con dentro fogli arrotolati che diventano il suo diario.

Come Primo Levi ad Auschwitz, si aggrappa alle memoria per non impazzire. Come Nuto Revelli in quegli stessi anni, capisce il valore immenso del mondo contadino da cui proviene.

Dopo due anni, a guerra finita, torna a casa a piedi, viaggiando di notte e nutrendosi dei frutti del bosco, sorretto dal miraggio della sua piccola patria. Dall' esperienza russa nasce il suo testo più famoso, Il sergente nella neve, che cinquant' anni dopo sarà trasformato in monologo teatrale da Marco Paolini. «I russi - racconterà all' attore - combattevano per le loro case, i tedeschi per il grande Reich, noi italiani per salvare la vita».

Fa seguito Il bosco degli urogalli e soprattutto la Storia di Toenle, dove si narra di un contadino, pastore e contrabbandiere che trova nell' attaccamento alla sua terra l' unico possibile rifugio dagli sconvolgimenti della Grande Guerra che devasta l' Altopiano.

Scrive perché la memoria non sia perduta: il Sergente è dedicato a quelli che non sono ritornati, Toenle ai racconti dei nonni, L' anno della vittoria alle sofferenze dei profughi, Le stagioni di Giacomo ai partigiani costretti a emigrare dopo avere ridato la libertà al Paese. E poi, recentissimo, Le Stagioni, dedicato alla natura. Un canto alla lettura ciclica del tempo, affine nello schema alle Georgiche di Virgilio.

Una vita piena, attaccata alla sua montagna. «Non potrei vivere in nessun altro luogo» diceva tra una sciata e una gita. Persino Asiago-paese era troppo grande e rumoroso per lui. Ha aspettato di avere ottantadue anni per andare a caccia di camosci la prima volta in vita sua e impallinare una bestia al primo colpo. Aveva una mira infallibile e nel bosco vedeva quello che gli altri non vedevano.

Una notte di due anni fa ci trovammo a Jesolo per un evento letterario. Lui fece notte in allegria, cenando con le autorità locali in un casone sperduto della Bassa veneta, oltre la muraglia di cemento della Riviera, ma poi a un tratto disse: «Fioi, no vedo l' ora de tornar su in montagna».

Era anarchico e partigiano nell' anima; si imboscava appena possibile e odiava la pianura perché c' era troppo rumore e troppa luce. Era grande nella scrittura, ma ancora di più nella narrazione orale. Era figlio di quella cultura e aveva un periodare spiccio e concreto, fatto di cose semplici: la pioggia, la neve, la legna, le patate, le mele, il fuoco, la carta di un vecchio libro. Le evocava, ne sentivi la ruvidezza e l' odore. «La parola detta - spiegò in un incontro pubblico a Torino - viene molto prima della parola scritta. Ha un ritmo che si sposa con l' andatura dell' uomo, che è un animale nomade imprigionato dalla modernità». Come Claudio Magris, altro grande battitore di boschi e brughiere, anche per lui l' andatura era ritmo, metrica, dunque narrazione.

Lamentava: «Cinquant' anni fa si sentiva la gente cantare. Cantava il falegname, il contadino, l' operaio, quello che va in bicicletta, il panettiere. Oggi hanno smesso. La gente non canta e non racconta più». Un giorno lo andai a trovare e mi accompagnò a piedi verso Malga Zevio, nella zona delle trincee raccontate da Emilio Lussu. Camminò sulle rocce dove erano morti migliaia di soldati, ascoltò il silenzio dell' Altopiano, interrotto solo dal ronzio dei mosconi. Poi disse: «Di questi tempi c' è troppo rumore, stiamo perdendo il senso delle parole, la loro forza terapeutica. Eppure l' uomo ha bisogno delle parole, sennò non le manderebbe a memoria. Primo Levi si salvò recitando la Commedia. Serbare il Verbo in petto gli impedì di diventare un numero e il segreto della parola fece la differenza tra i vivi e i morti».

Disse che in Russia - che lui chiamava commosso «la mia Russia» - la gente andava a recitare sulle tombe dei poeti, e lì declamava, fremeva, piangeva, evocando parole dette chissà quanti anni prima. Sentiva la sofferenza della natura per il surriscaldamento dell' atmosfera. Guardava continuamente il cielo, ascoltava il canto degli animali del bosco, controllava i movimenti degli animali. «Guarda - mi disse quell' estate, la tremenda estate rovente del 2003 - gli abeti sono in esuberanza, sono pieni di strobili e polline». Poi imitò il trillo di un uccello: «Le allodole - aggiunse - sono salite sopra i 1500 metri, lo capisci dal canto all' alba che non si sente più attorno al paese». S' era accorto che le zecche non c' erano più, e le vespe germaniche pure. I funghi erano scomparsi, le vipere invece si erano moltiplicate. C' erano «troppe ortiche», lamentò. «Se la politica non aiuta chi lavora su in malga, le erbe matte arriveranno fin dentro la piazza di Asiago».

«Spegnete la televisione, prendete un libro» disse a sorpresa un anno fa davanti a milioni di telespettatori nell' unico talk-show cui aveva accettato di partecipare. Non aveva paura di nessuno, e parlava volentieri soprattutto con i giovani. Sentiva l' urgenza di un messaggio da lasciare. A un raduno di cacciatori «gentiluomini» in Val Badia mi disse di essere ai ferri corti con la televisione, mezzo «volgare e banale». «Lo dirò un giorno ai loro direttori - sbottò - vi prego, tenetemi sveglio almeno durante il telegiornale».

Fuori pioveva in modo impressionante sulle Dolomiti, e lui si sedette accanto al fuoco per raccontare. Evocò storie di preti-bracconieri e i favolosi racconti sulle battute di caccia della letteratura russa, tra le betulle del Nord, il suo albero preferito. Sobbalzando sulla poltrona, raccontò di un commilitone uscito allo scoperto dalle linee, sotto il tiro dei russi, per correre dietro a un volo di starne.

Chiamarsi Rigoni e morire in una contrada di nome Rigoni - Asiago è una rete di frazioni sparse sui pascoli - , vivere in una terra dove basta chiedere «dov' è la casa del Mario» per farsi indicare la strada, tanto il cognome è sottinteso, credo sia una grande fortuna in questo tempo di stradicamenti e meticciati selvaggi.

Quando ci andai l' ultima volta, mi bastava nominare il Mario e la gente abbassava la voce, come per non disturbare l' evento misterioso che si compiva, come se tutto l' altopiano aspettasse col fiato sospeso la caduta della quercia e ogni alberello sapesse che l' equilibrio del bosco sarebbe mutato con la sua assenza. Di certo, la foresta lo chiamava, e non era una foresta qualunque, era quella che l' aveva visto nascere.

La fine del Mario era davvero un inizio. «No go paura de morir» disse con voce flebile. Ma le guance erano rosse come sempre, e nell' occhio stanco ardeva una luce febbrile. Continuò: «Mi avevano detto che non sarei arrivato a febbraio, e adesso è marzo. Non so se arriverò alle elezioni, ma mi piacerebbe che Quello Lì andasse a casa». Quello Lì era l' innominabile, il grande manipolatore, e la luce negli occhi erano i carboni ardenti della passione civile.

Ero arrivato da lui con una coppia di amici che gli avevano portato un cesto di uova ruspanti, raccolte il giorno prima nel pollaio di casa. «Uova partigiane», dissero, mandategli dagli ultimi testimoni-protagonisti della Resistenza sulla Linea Gotica. Lui fece il baciamano a lei e diede la zampaccia a lui. Era contento. Poi disse: «Mi raccomando, non voglio pagliacciate ufficiali. Niente cori e discorsi. Che si sappia una settimana dopo».

Uscendo, ci fermammo nel soggiorno inondato di sole e bevemmo un bicchiere con la moglie Anna e il figlio Alberico, una montagna d' uomo, assessore all' ambiente del Comune di Asiago.

Il Mario continuava a mangiare in silenzio, in cucina, e noi promettemmo di tornare, l' estate, a fare il giro delle malghe, «perché lassù si gioca una battaglia importante». Bisognava continuare il lavoro del vecchio, non mollare al cemento.

Salutammo.

Avevamo già addosso il suo odore, i suoi scarponi e il maglione. Poi salimmo verso l' Ortigara, fin dove la neve bloccò la strada.

Eravamo felici".

martedì 17 giugno 2008

Alberto Fortis - A voi romani


Solo 7 anni fa vincevamo lo scudetto.

Ma perchè festeggiare con Venditti, Zampa o qualche altro coro da stadio?
Non è più bello ricordare quel bellissimo giorno riascoltando uno dei pezzi più belli di uno dei più geniali cantautori italiani, una canzone contro Roma e i romani?

E quel giorno così lo vide Gabriele Romagnoli da "La Repubblica" del 18 giugno 2001

"Nudi alla meta, più uno in ciabatte (il portiere), un altro in mutande (il difensore centrale) e la Ferillona che giura di adeguarsi presto.

Il "popolo giallorosso" come lo chiama lo speaker dell' Olimpico, arriva all' appuntamento con la Felicità così com' è: tanto, sbracato, incontenibile, con il cervello spento per inevitabili minuti dieci e il cuore sovraccarico per il resto della vita, che passerà a coccolarsi un ricordo e menare un vanto: "C' eri, tu, allo stadio, quel giorno che?".

E bisognava esserci per capirlo, il giorno in cui apparvero diecimila bandiere e neppure uno striscione; in cui Totti correndo con il trionfo sulle spalle indicò la tribuna e disse: "E' vostro!";

la mamma incinta si guardò la pancia e come in una canzone di Battisti, disse: "E' anche per te";

la sposa radiosa baciò Sensi e tutti pensarono: "Mò ci diventa un principe";

Cesare Romiti pianse e anche se erano lacrime di gioia, uno lo paga volentieri il biglietto, per vedere certi spettacoli.

Bisognava essere lì quando annunciarono l' immancabile gol di Trezeguet, ma nessuno ebbe paura, per capire che il popolo (giallorosso o no) ha il radar: sente in anticipo gli ombrelli di Altan, ma anche il sole dietro le nuvole;

lì quando Montella segnò e corse incontro alla curva con quella faccia da bambino messo in castigo, che aveva solo voglia di giocare;

quando la Ferillona ha "ringraziato Dio di averla fatta romanista" e Capello stava per rispondere: "Non c' è di che, signorina";

quando lo juventino Veltroni s' è messo la sciarpa giallorossa, perché è il sindaco di tutti e di Totti (e un po' anche di Nesta, non si sa mai).

Bisognava essere all' Olimpico anche per capire il buio nella mente di un migliaio di ragazzi a cui, a sei minuti dalla fine, si è spento l' interruttore e alè, tutti dentro al campo, rischiando di riuscire là dove questa Roma aveva fallito: perdere la partita e gettare lo scudetto. C' è poco da scusare, ma anche poco da spiegare, per loro vale quello che dice Totti: "E' vostro!" e sono andati a prenderselo, rotolandosi sul campo, aggrappandosi alla maglia di Delvecchio e alle mutande di Tommasi. Se volevano fermarli, bastava mettere il cordone di polizia prima. Non erano minacciosi, né violenti, forse erano "scemi, scemi" come li chiamava chi era rimasto sugli spalti, forse anche peggio, come urlava loro Capello (l' unico al quale non abbiano neppure osato toccare la cravatta, per non prendersi un morso); l' unica certezza è che erano felici e, in qualunque forma si presenti, va portato rispetto alla Felicità.

Molti di loro non c' erano o erano troppo piccoli, diciotto anni fa. Liedholm, Falcao, Bruno Conti, sono leggende che appartengono ai padri, come il partito comunista, lo sbarco sulla luna e Frank Zappa. Il destino gli ha rifilato Andrade, la Margherita, il Grande Fratello e i Lunapop.

Da ieri pomeriggio, dopo che hanno dato di matto per dieci minuti, hanno in mano la propria leggenda, presumibilmente in forma di zolla calpestata da Cafu o di canotta appartenuta a Mangone.

E che la Felicità sia con loro. Il commento severo sulla follia a un passo dal traguardo spetta a quelli che sanno essere padri severi, a quelli che trovano cafona la gioia romanista e rimpiangano pure la mancata festa juventina che (per rispetto dello stile) si sarebbe limitata a quattro clacson e un barbecue con le costolette dell' allenatore campione;

spetta, soprattutto, a quelli che trovano cafona la gioia in generale e non esultano mai, che vincano le elezioni o il Bingo, troppo assuefatti al successo, troppo avari con se stessi.

Il "popolo giallorosso" è l' esatto opposto: ha staccato ieri uno dei due o tre bonus per la Felicità a cui ha diritto nella vita (se ce l' ha lunga) e se lo vuol godere fino alla rovina.

Bisognava esserci, per capirlo, svegliarsi in quel silenzio così diverso dalla vigilia di Roma-Napoli, quando l' eccesso di confidenza e anticipazione aveva fatto da antipasto al piatto vuoto della delusione.

Bisognava andare all' Olimpico e vederli prendere coraggio strada facendo, ognuno con i suoi mezzi, magari arrivando a pezzi, su una vecchia bicicletta da corsa, con gli occhiali da sole e il cuore nella borsa.

Bisognava sentire il racconto delle ultime scaramanzie: "Mio figlio, quello piccolo, di ventun anni, ieri alle dieci in punto si è trovato a casa di un amico con tutta la sua compagnia, hanno passato la notte a riguardare le cassette delle partite vinte, senza dormire, poi, alle dieci del mattino, sono venuti allo stadio, ad aspettare~non so, credo che pensino, facendo così, di esserselo meritato".

E magari era vero, perché quando passarono in tribuna stampa il foglio con le formazioni, c' era in campo dall' inizio Montella e se c' era anche un pallone rotondo, il risultato era segnato.

Il pubblico lo sapeva, ha decretato gli uominipartitascudetto all' annuncio dello speaker: ovazioni per Totti e Montella.

Si è aggrappato al capitano per arrivare in porto, perché quando lo indica dice: "E' nostro!", ed è vero.

Totti ha fatto 13 (gol) e il pubblico ha incassato la vincita, in nome e per conto.

Bisognava stare lì, tra il primo e il secondo tempo, sul 20, tra tutta quella gente con la sicura ancora inserita, ma l' esplosione ormai assicurata e godere dell' ultima scaramanzia, capace di produrre piccoli ma significativi miracoli, tipo Paolo Liguori che non parlava e Manuela Arcuri che, per distinguersi, non si spogliava, anzi si metteva un' altra maglia.

E poi accompagnarli fino in fondo, al terzo gol di Batistuta all' invasione demenziale che lasciò tuttavia sul campo scampoli di verità: il re (leone) è nudo, Totti porta le giarrettiere e Antonioli è pronto per mettersi in pantofole e guardare il calcio con il decoder.

E poi andarsene di lì con le carovane dei motorini, i clacson che rimbombano sotto i tunnel del Muro Torto;

i caschi dimenticati in favore delle bandane; le bandiere scippate al volo ai chioschetti improvvisati dagli ambulanti, tutti curiosamente simili a Jonathan Zebina, che deve aver avvertito la famiglia dell' occasione;

le barriere d' accesso al centro storico rimosse dagli stessi vigili: "La storia siete voi"; primi ad arrivare in piazza Navona a stupire i turisti, a fare il girotondo di Piazza Venezia.

Si può essere come il protagonista di "Fight Club" e stare bene andando alle riunioni di quelli (alcolisti, drogati, malati terminali) che stanno peggio o cercare di star meglio lasciandosi contagiare da quelli che sono felici.

Consiglio per i depressi non affetti da snobismo: venite nella Città della Gioia, fatevela scivolare addosso e, quando ve ne andate, non spegnete la luce".

sabato 14 giugno 2008

Pink Floyd - Money


Siamo senza soldi, Veltroni ha svuotato le casse...

Roma è piena di manifesti firmati Alleanza nazionale nei quali è rappresentato questo pianto greco, questo grido di dolore, una sorta di excusatio non petita.

Avete tolto l'Ici, abolito i parcometri? E ora che volete? Basta essere andati ad una semplice ragioneria per sapere che la coperta è troppo corta.

Ma tanto ora ci pensa Gianni il questurino, vero?

A fenomeni.....

venerdì 13 giugno 2008

in italia si sta male


Da un articolo di uno degli inviati di Repubblica all'europeo austro-svizzero, Emanuele Gamba,a proposito della Romania:

""Quelli che noi vorremmo cacciare dall'Italia adesso rischiano di cacciarci dall' Europa..."

martedì 10 giugno 2008

Ska p - Mestizaje

Qualcosa non torna o meglio cosa c'è scritto ogni settimana in un giochetto della Settimana Enigmistica?

Trova l'errore.

Cos'è che non torna in questa notizia battuta dal sito web de La Repubblica?

"Hanno ucciso un loro dipendente romeno per incassare un milione di euro dall'assicurazione. Con l'accusa di omicidio volontario premeditato e occultamento di cadavere, è finita in cella una coppia trentenne di Verona: era lei la beneficiaria dell'assicurazione.

Titolari di un'impresa di autotrasporto, Tancredi Valerio Volpe e Cristina Nervo hanno ucciso Adrian Joan Kosmin, 28 anni, assunto in nero presso la loro ditta da un paio d'anni.

In cambio della regolarizzazione del contratto, i suoi datori di lavoro lo avevo convinto a indicare come unica beneficiaria dell'assicurazione sulla vita la titolare dell'azienda".

Non ho notizie di edizioni straordinarie, di prime pagine scandalizzate de Il Giornale, Libero o del Secolo d'Italia. Tutti zitti?

Per non parlare de L'Arena, il quotidiano della città scaligera.

Quelli che vogliono la pena di morte, i linciaggi, i Borghezio, i Tosi, i Gentilini o qualche ubriacone triveneto ciucco di grappa alle 7 del mattino.
E Gasparri, il nostro sindaco, e l'ineffabile Fini? Tutti zitti, ma si dai, discutiamo di Barzagli, di Materazzi o dell'esclusione di De Rossi.

E'un paese che fa ribrezzo con una classe politica che ne è la degna cloaca.

E gli elettori? Belli loro. Quelle nullità che ascolti in metro, bus, treno con ascelle poco pulite, aliti al plutonio, accenti indefiniti che si lamentano degli zingari, dei negri e dei lavavetri che fanno i miliardi ai semafori mentre i propri figli, presunti geni, stralaureati (e te li raccomando, basta sentirli quando biascicano quattro cazzate all'università o scrivono negli esoneri) non trovano lavoro perchè ci stanno le raccomandazioni.

Ma andate a fare in culo e fottetevi!!!!

sabato 7 giugno 2008

Massimo Ranieri - Vent'anni - Erba di casa mia

Ieri sera, Teatro Sistina, Roma.
Ho accompagnato mia madre al concerto di Massimo Ranieri.
Pubblico attempato ma un'energia, un calore, una felicità che ho visto raramente nella mia esperienza.

Un artista con la A maiuscola, 2 ore e mezzo di concerto alla grande, lui, unico uomo, con un'orchestra di 10 donne ed un corpo di ballo tutto al femminile.

Il suo repertorio, Erba di casa mia, Rose Rosse, Nuttata 'e sentimiento, Vent'anni, Perdere l'amore ed omaggi a gente del calibro di Aznavour, Bindi, Tenco, Battiato e Venditti.

Sa cantare, far l'attore, regge la scena, pare una novità nel mondo attuale. La faccia sempre più scavata, eduardiana, alla Montella.

Una bella serata, una serata di fronte all'arte, alla costanza, alla bravura di un uomo ed artista mai sopra le righe.

venerdì 6 giugno 2008

Jealous Guy

Dal blog di Gabriele Romagnoli:

"Sono a cena in tre: lui, sua moglie e il suo vecchio amico G, che non vedeva da tanto e si trovava a passare in città.

Hanno un tavolo all'aperto, sulla piazzetta, c'è un vento leggero, brindano.

Poi sua moglie si alza per andare in bagno e i due uomini restano soli. Lui la guarda ancheggiare tra i tavoli.

Dice: "Speriamo che stasera non si faccia venire delle idee..."
Il vecchio amico G è perplesso: "In che senso?"
"Nel senso che oggi ho passato la pausa pranzo con la nuova avvocatessa, capisci, più di un'ora, sono venuto due volte... dopo la prima mi sono fatto la doccia, non ho neppure riprovato, le ho fatto un massaggio, poi mi sono rivestito, ma quando ero già pronto quella me lo ha preso in bocca e, da non credere... adesso, capisci, chi ce la farebbe mai... vedi il vantaggio delle donne, possono farlo anche sei volte con tre uomini diversi nella stessa giornata e..."

"Zitto!"

"Cosa?"

"Zitto!"

Da giovane il suo vecchio amico G ha lavorato brevemente per i Servizi e gli è rimasta la pratica del sospetto.

Sposta la bottiglia dell'acqua e dietro c'è il cellulare di lei, acceso alla funzione "registra". E' andata in bagno e ha preparato la trappola, sicura che i due uomini avrebbero fatto una conversazione da uomini.

E ora? Tutto quel che lui sa pensare è: cancellare la registrazione, ma lei capirebbe.

Che altro? Panico.

E' a quel punto che il suo vecchio amico G si alza in piedi, prende il cellulare e comincia a correre gridando: "Al ladro! Fermati! Ladro! Fermatelo!".
La gente lo guarda stupita, rincorre il nulla ma nessuno lo capisce. Svolta al primo angolo, getta il cellulare in un tombino, aspetta, torna indietro ansimando ad arte.

L'amico e la moglie sono in piedi, circondati da camerieri e altri avventori. Tutti dicono di aver visto qualcuno prendere il cellulare e scappare. Il vecchio amico G dice, respirando a fatica: "Un immigrato! Correva come un fulmine... come tutti i negri".

Cenni d'assenso. Moglie e marito si abbracciano, ravvicinati dalla sventura. Da sopra la spalla di lei lui sospira.

Per salvare un matrimonio occorrono due cose: "quel gran genio del tuo amico" e quel gran genio d'una moglie che vota partito della libertà".

giovedì 5 giugno 2008

She's Electric

Per chi è innamorato, per chi non lo è, per chi è turbato, per chi è felice, per chi è contrariato o semplicemente per chi come me, ora come ora, non è che sappia molto che pesci prendere.

Mi sento a metà tra Veltroni e Pradè e non è un bel sentire

Che succederà?

D'altra parte come si dice, beato chi c'ha 'n occhio...