domenica 27 gennaio 2008

OUT OF TIME MAN



Caro C.,

con questa Mia vengo a dirti che mi hai molto deluso.

Non per il ribaltone (l'ennesimo) nè per la conclamata crisi di governo (era durato anche troppo, forse).

Ma per il resto, per il contesto.

Perchè tutto si può fare nella vita, ma con dignità.

Si può scegliere di mettersi il Paese sotto le scarpe per un fatto personale ma occorre essere forti e senza macchia.

Si può avere una moglie bevuta e frignare come un bambino.

Si può avere una moglie ingabbiata ma, da ministro di Grazia (eh si) e giustizia (con la g minuscola), avere la polizia penitenziaria che difende la sicurezza della villa di Ceppaloni dai malintenzionati. Gli stessi secondini che hanno dovuto chiedere di identificarsi ai carabinieri che portavano la notifica del provvedimento restrittivo a lady Sandra.


Ma non si può, in Senato, leggere una poesia di Pablo Neruda (un comunista poi...) con la voce rotta e il fiatone a testimoniare una dignità lasciata davanti ad una mozzarella di bufala lacrimante latte.
Lo stesso tremolio e la stessa paura mostrate nei vari show televisivi gridando al complotto.
Il tutto mentre tua moglie si difendeva con un sol uomo e senza cedimenti, contestando punto su punto la ricostruzione della procura.

E tu ti presentavi a palazzo Madama con il medico per paura di un mancamento e guardavi con ira il tuo collega di partito Cusumano che, insofferente al richiamo delle foreste sannite, confermava la fiducia al governo.
E diveniva un traditore, uno sozzo, sveniva davanti ai lazzi di un suo ex compagno dell'Udeur.


Ma tu sempre un passo indietro, in ritardo, pesante, oramai passato, una virgola nel grande circo italiano.

E poco importa che con poco meno dell'1% metterai in scacco il centro sinistra, ripasserai con il Polo e confermerai le tue baronie di potere nel beneventano.

E poco importa che ti sia dimesso subito e non una settimana dopo come il tuo ex collega di partito e futuro compagno di merende Totò Cuffaro.

Poco importa che continuerai ad apparire sui nostri teleschermi.

Alea iacta est.
Il dado è tratto.

Ti sei mosso male, in ritardo, come un pachiderma.

Sei il simbolo (forse immeritato) della casta e questo non te lo leverà nessuno.


Non hai guardato l'orologio, sei arrivato in ritardo, il mondo è corso più veloce di te,


so Out of time man,


a (non più) rivederci,

con immutato sconcerto,

il Tuo A.


http://www.youtube.com/watch?v=e0uukcxZnLo&feature=related (Mano Negra, Out of time man)

lunedì 21 gennaio 2008

LIBERA NOS A MALO


Dopo lo sgarbo della Sapienza Papa Benedetto XVI ha chiamato a raccolta i suoi. Ben 200.000 persone hanno affollato il lastricato di S. Pietro per dimostrare la solidarietà al Santo padre, colpito nell'orgoglio per le possibili contestazioni universitarie.

E quanta bella gente c'era in piazza: giovani di Cl, l'ex piduista Cicchitto (ma un massone dal Papa...?), Casini e famiglia (quale però?) Buontempo e Storace (i manganelli benedetti dall'aspersorio) e Mastella (che faceva le veci della sua gentile signora impossibilitata, credo, ad essere presente).

Mai il Papa come ieri mattina ha svolto il suo ruolo di pastore: quante pecorelle smarrite da pascere, solo che non bastava Lassie a far da guardia al gregge, ci sarebbe voluto Cujo.

Resta sempre una domanda. Perchè la Chiesa accetta di farsi strumentalizzare, ma uno come Ratzinger ma che se ne fa della solidarietà di un Franceschini o di un Tajani qualunque? Ma uno abituato a parlare con l'altissimo può cercare colloqui felpati con Ronchi?

E parte della massa cattolica presente, alcuni intervistati dai Tg in netta difficoltà con congiuntivi e consecutio e che ripetevano stancamente slogan imparati a memoria da un parroco su dei torpedoni provenienti dal Lilibeo, sapeva perchè era lì?

L'Angelus è una preghiera, è una cosa seria, è raccoglimento, può essere gioia e può essere sofferenza. Ed è una cosa molto, troppo seria, per lasciarla fare a chi è indagato per mafia ( i siciliani presenti in piazza che dicono di Cuffaro?), per la monnezza, per concussione, per chi ha approvato a occhi chiusi i bombardamenti sull'Iraq e magari spera di rendere l'aborto un crimine solo perchè magari non può avere figli?

giovedì 17 gennaio 2008

200 VOLTE GRAZIE



Quando all'inizio del secondo tempo, nella piovosa serata romana di ieri, il Capitano è entrato in campo ci siamo guardati, allo stadio, negli occhi e abbiamo detto: "E' fatta, possiamo girare pagina".

Ma come diceva Elio, tra il dire e il fare c'è di mezzo e il, e non pensavo che il suo pezzo di partita potesse essere così devastante.
Doppietta, 200 goal, e qualificazione.

200.

Che traguardo. Se uno poi pensa di esserci cresciuto assieme fa davvero effetto.

Fine marzo 1993, 5 minuti dalla fine di Brescia- Roma, 0-2 (Caniggia e Mihajlovic) quando entra in campo ed esordisce in serie A.

C'era il sole, i primi vagiti di una primavera e nell'orecchio la voce di Alberto Mandolesi dallo stadio sulle frequenze di Dimensione Suono Roma che avvertiva. "Entra in campo Totti, ne sentirete parlare".

E 15 anni dopo e 200 goal dopo, cazzo, veramente mi viene un groppo in gola.

Mai quel coro di ieri sera, "Un Capitano, c'è solo un Capitano", acquisisce la denominazione di un vero e proprio articolo di fede.


Questo l'articolo di Tonino Cagnucci da "Il Romanista" di oggi:

"Quando s’è alzato dalla panchina, oltre alla Sud, pure il Piave ha mormorato.

C’era un 24 maggio da conquistare.

I quarti per la finale.

"Coppa Italia sarà" cantavano i soldati.

Quando Francesco Totti s’è alzato l’ha fatto anche la Roma.

Insieme, senza far niente altro che entrare.

Nella storia.

Perché sono la stessa cosa.

Totti e la Roma.

È stato uno dei quei rari casi che capitano nello sport: Mohammed Alì battè Foreman già prima di salire sul ring di Kinshasa, anche lì c’era il mormorio ("Alì bumaye") della gente che l’aveva visto tirare due pugni al vento e parlare di farfalle contro il gigante lento.

La Roma cominciò a vincere lo scudetto il giorno che comprò Batistuta: bastava il fatto, la presenza, il peso specifico, la dimensione.
Il nome. Totti. È bastato che si alzasse perché la Roma si alzasse.

Ha segnato prima di quel piatto destro da prefisso hard (199) e orgasmo infinito, e prima di quel rigore dovuto per mettersi in posa per la storia. Manco Fonzie ha mai fatto tanto.
Duecento volte happy days. Era passata inutilmente un’ora di partita, e a quel punto la stagione a qualcuno poteva addirittura sembrare finita. O scudetto o Champions, o magari tutte e due, ma più difficilmente anche solo uno dei due.

Poi quando è entrato lui è cambiato tutto, e una notte che per troppi inzialmente sembrava banale, poi soltanto triste e grigia e brutta, è diventata addirittura fenomenale (20.000 spettatori sono tanti nel calcio moderno, ma pochi se sei romanista, perché se sei romanista è de più. E non regge nemmeno la scusa che stavolta su La7 non c’era nessuno dei nuovi dj del pallone, ma il Signor Bruno Pizzul: "il grande mercoledì è arrivato...", disse quella volta).

Quattro a zero e casa, giusto per citare l’autore di questa storia cominciata il 4 settembre di 14 anni fa e chissà quando finirà.
The neverend history... Se basta alzarsi dalla panchina per segnare, arrivare ai mille e passa di Pelè è addirittura una probabilità prossima.

Quando l’ha fatto, stanotte, adesso, poche ore fa, a quel punto la notte è diventata dei campioni, l’ottavo l’ottovolante per volare, e in un tempo rimonte da Dundee o da Jena, e un ricordo speciale a piogge da "che sarà sarà" trasformate in sole, o lacrime di Giuseppe Giannini contro il palo in finale.

Contro il Torino.
Pure nell’80 c’era Pizzul a commentare Toro-Roma.
Era tanto.

Non era poco quello che la Roma si giocava, era tutto questo e molto altro: la mentalità giusta, la "doppia" contro Cassano, il restare su tutti i fronti tutti (e il Piave mormora), l’onore di una cerchietto tricolore da tenersi stretto-stretto sopra il cuore.

Inni a San Siro, e che c’è di male se siamo stati tutti là.
È da quando ha lo scudetto sul petto che la Roma supera dritta il primo turno di questa Coppa che vale tanto più di una coccarda. Punta alla quarta finale di fila, punta alla doppia vittoria di fila: quando lo fece inaugurò il ciclo più bello della sua storia: era un’epoca di sogno, in cui le finali di Coppa Italia si giocavano anche in una gara secca, in una finale, all’Olimpico, non a San Siro.

Che c’è di male siamo andati sempre qua.

Quando s’è alzato dalla panchina s’è alzata la Roma che pure va applaudita tutta, a cominciare da Cicinho che c’ha messo (e c’ha lasciato) le palle sulla linea per non farli segnare;
Doni, anche lui adesso sempre primo portiere; Giuly che è un altro fumetto (Topolino) e schioppetta champagne quando corre sprinta e se ne va;
Spalletti che ha rindovinato tutto (e tra le cose più belle c’è - a fine partita - la sua esultanza in un pugno);
De Rossi che per la prima volta nella sua stupenda biondissima storia ha avuto l’emozione di tenersi al braccio la fascia mentre la Curva cantava "C’è solo un capitano": perché entrava.

Duecento gol incominciano a essere un numero, un’occasione rispettata con la storia, una data e un altro appuntamento.

Il 24 maggio, se finale sarà, se Coppa Italia sarà, giocheremo in casa: e il 24 maggio non passa lo straniero".

venerdì 4 gennaio 2008

UN CALCIO NEL CU...ORE

Torniamo, per il primo post del 2008, al banalissimo pallone.

Premesso che Il Romanista non è un giornale che riscuota le mie simpatie per un certo modo scandalistico e folkloristico di fare informazione e che Daniele Lo Monaco, inviato principe del giornale, non sia propriamente Gianni Brera, quello che scrive nel suo blog online, Rosso & Giallo, in data odierna, è davvero condivisibile.

Come dire, a volte ritornano...




"Un calcio nel cuore" e un libro di 248 pagine, edito da Tea, e in vendita al costo di 12 euro, e stato scritto da Luciano Moggi con Enzo Bucchioni e la collaborazione di Mario D'Ascoli, due giornalisti del Quotidiano Nazionale, e consta di 30 capitoli, una prefazione (del direttore di Qn, Giancarlo Mazzuca), un'introduzione (--Quel maledetto giorno di maggio--) e un epilogo (--Una luce in fondo al tunnel--).

E' la versione di Luciano Moggi su Calciopoli, quello che gli italiani hanno conosciuto come il piu grande scandalo di malaffare legato al calcio di casa nostra.
E' una versione naturalmente di parte, piena di incongruenze, incoerenze, mancanze, bugie e storture, smontabili una per una, a cominciare dall'assunto base.

Scrive Moggi, o chi per lui, in uno dei punti piu melodrammatici del suo racconto: --Non mi sento colpevole, altrimenti l'avrei ammesso. Potrei permettermelo. Ho fatto la mia carriera, sto bene, ho una bella famiglia, tanti nipotini adorabili. Ho avuto le mie soddisfazioni, grandi e piccole. Ma non mi basta. Non mi basta mettere sulla bilancia una vita intera e dirmi: sei stato bravo, sei partito dal nulla e sei diventato qualcuno. Non mi basta--.

Dunque, l'avrebbe ammesso, se fosse stato colpevole.
In fondo, ha tutto.
Potrebbe ritirarsi ad espiare le sue colpe.
Ma lui non e colpevole, chiaro. Anche perche ammettere le colpe significherebbe semplicemente convenire con chi (qualcuno da anni, qualcun altro solo dopo lo scandalo) sostiene che la sua carriera e stata costruita sui misfatti, sugli inganni, sui sotterfugi, sui mezzucci da piccolo uomo e su tanti piccoli e grandi crimini sportivi, e vedremo se saranno riconosciuti come tali anche dalla giustizia ordinaria.

LA PREFAZIONE Il libro, dunque.
Comincia con una discutibile prefazione firmata dal direttore del Quotidiano Nazionale, Giancarlo Mazzuca che prima prende le distanze dai suoi redattori che hanno firmato l'"opera", spiegando che lui non si e specializzato in giornalismo sportivo perche --non avrei potuto sopportare il finto perbenismo che circonda il nostro calcio--, e poi assesta una bella lezioncina di comportamento a tutti i lettori, invitandoli a fare come lui: --Anch'io prima di incontrare Moggi nella sua casa napoletana appartenevo alla lista di coloro che possono definirsi colpevolisti a priori. Ma poi, sentendolo parlare e leggendo soprattutto la confessione rilasciata ai colleghi, ho cominciato a nutrire qualche serio dubbio--.

Ecco la ricetta: non conta aver seguito e magari denunciato i misfatti di Moggi per anni, essersi documentati (sul Romanista o sugli altri quotidiani che hanno trattato lo scandalo con la necessaria accuratezza) e magari aver letto e ascoltato le centinaia di intercettazioni telefoniche che costituiscono il fulcro della monumentale inchiesta dei pm di Napoli Narducci e Beatrice.

Macchè: prima si puo essere colpevolisti --a priori--, adesso dubbiosi, grazie all'autorevole "Un calcio nel cuore".

IL PERCORSO MISTICO Nei suoi trenta, un po' confusionari capitoli, Moggi accenna naturalmente solo ad una parte dell'inchiesta, dopo aver raccontato come la fede avesse battuto la morte, dove per fede s'intenda il percorso mistico che l'ha portato in qualche settimana a riaprire senza timore le finestre della sua casa torinese che per qualche giorno sembravano potergli servire solo al gesto estremo che aveva intenzione di compiere.

Nessuno ovviamente ha il diritto di sindacare su affermazioni cosi personali e cosi drammatiche, compreso quel messaggio recapitatogli ad un certo punto della sua vita direttamente da una inviata di Padre Pio, il santo frate che all'epoca dell'annunciazione era gia morto da tempo. Ma naturalmente tutta questa parte del libro serve a poco a chi l'ha acquistato per comprendere il punto di vista del principale imputato del processo.

Partendo dalla sua "resurrezione" (un ragazzo che un giorno per strada gli ha gridato: --Luciano, difenditi, fagli vedere chi sei. Quelli si sono inventati di tutto per distruggere la Juve--), Moggi racconta la sua versione dei fatti partendo dall'interrogatorio del 15 maggio 2006, quello che nella sua testa avrebbe dovuto smontare le teorie dell'accusa e che, naturalmente, ha avuto tutt'altro esito. --Quella mattina - scrive senza un briciolo di ironia - mi e venuto in mente anche Enzo Tortora. A lui e andata peggio--.

Il lettore (del libro) ricavi dall'ardito paragone la sua morale: quel che sottintende Moggi e che se le accuse a Tortora di essere uno dei piu grossi spacciatori e mafiosi d'Italia si sono poi dissolte, lo stesso accadra anche a queste. Alla fine dell'interrogatorio, non manca il pensiero nobile da pater familias: --In ogni caso, prendetevela con me. Lasciate stare mio figlio e la mia famiglia--. Strano modo, da padrino piu che da padre, di intendere la giustizia. Ma tant'e.


L'AMMISSIONE Andando ai fatti, la piu grande ammissione contenuta nel libro di Moggi e a pagina 27: --Rileggendo i fogli dell'inchiesta mi sono accorto di una cosa, lo ammetto: ho esagerato. Parlavo troppo, chiacchieravo con tutti, ma quello era il mio mondo da trent'anni e il mio mondo e fatto cosi--.
Ingenui noi che pensavamo che contasse la qualita delle cose che si dicono (e si fanno) piuttosto che la quantita. --Per me - chiarisce invece lui - e sempre stato cosi: piu gente conosci, meglio e. Piu amici hai, piu sei protetto. Piu gente importanti conosci e piu porte si aprono. Piu fai vedere di essere potente, piu sei rispettato. Cosi va il mondo, non solo il calcio--.

Eccola, chiara sin da subito, la lezione dell'universo moggiano: cio che conta non e la bravura, la competenza, la professionalita, il rispetto, l'educazione, la sincerita. Ma la conoscenza, il potere, le porte da aprire senza chiavi.

Poi entra nel merito, citando la famosa telefonata sulle griglie con Pairetto, indicando quale rivelazione della sua buonafede il fatto che abbia fatto quella telefonata sull'utenza di casa: --Sul telefono piu intercettabile, proprio perche non avevo niente da nascondere--.

Naturalmente, quando poi giustifichera l'utilizzo delle schede straniere non intercettabili, non dira che aveva qualcosa da nascondere, ma di una naturale forma di autodifesa dai poteri forti. Come no. Se ci crede Mazzuca, del resto...


LA SUA... DIFESA Sullo specifico, ogni lettore del libro si fara un'idea delle teorie di autogiustificazione di Moggi, che si basa su vari fatti, tipo che --le telefonate le facevano tutti--, e se di altri dirigenti non c'e traccia e solo perche --qualcuno le ha fatte sparire--, che comunque farlo non era vietato, che era ovvio avendo rapporti di amicizia trentennali (ecco perche quei dirigenti erano li...), che poi molti risultati non sono arrivati (bel paradosso: la Juve vinceva perche era forte, e quando non vinceva e la prova che gli arbitri non l'aiutavano...), che --si sa che nel calcio certe cose si dicono per scherzo--.

E qui arriva facile il paragone col suo grande amico Aldo Biscardi, quel giornalista che arrivò a giustificarsi di fronte ad un giudice dopo una querela asserendo che la sua trasmissione era popolata da riconosciuti buffoni e quindi non avrebbe mai dovuto esser presa sul serio. Come Biscardi, anche Moggi sostiene che nel calcio --molte cose si dicono solo per far scattare la meraviglia dell'interlocutore--, nel suo caso --per far capire che la Juventus poteva fare tutto--.

E pure questa sembra una magnifica confessione, che magari nell'ingenua concezione del mondo di questo bambinone dovrebbe servire a ridurre un'eventuale pena, ma che agli occhi di un osservatore provvisto di una qualsiasi forma di dignità fa capire in quali mani rozze e villane fosse caduto questo calcio. Aggiunge solo tristezza che molti dirigenti e presidenti di altre societa non si siano mai posti il problema della serieta e della competenza di quello che automaticamente individuavano come il loro privilegiato interlocutore.


MOGGI L'ITALIANO Il libro e pieno di chicche irresistibilmente anche se involontariamente comiche. Moggi sostiene ad esempio che Paparesta non denunciò quella specie di sequestro di persona non certo perche temesse ritorsioni per la sua carriera, ma solo perche sapeva di aver arbitrato --da cani-- e quindi far squalificare Moggi e Giraudo avrebbe favorito nuove sottolineature dei suoi errori.
Educativa anche la spiegazione sulle intercettazioni che hanno rivelato i favoritismi finanziari e temporali sulla vendita di automobili di grossa cilindrata del gruppo Fiat ai designatori: --Chi non si fa raccomandare, in Italia? Pairetto voleva solo un aiuto, all'italiana. E io ai miei amici penso sempre. Dove vivono quelli che si scandalizzano? Al mondo si sta in questo modo--.

Bambini di tutto il paese, leggete bene: quel che vi insegnano i vostri genitori buttatelo al cesso. Da oggi seguite il metodo-Moggi. E buttate i libri su cui studiate: cio che conta per ottenere qualcosa e una raccomandazione.
Lo dice questo nuovo sussidiario. Cosi va l'Italia, dov'e lo scandalo?

Innocenzo Mazzini, in questo quadro, è un altro perfetto abitante del Bel Paese. Secondo Moggi, infatti, conta poco che rivestisse un ruolo tutt'altro che secondario nel movimento calcistico italiano (era semplicemente il numero due della federcalcio).
No.
Per ridurre la portata delle accuse che li coinvolgono, Lucianone arriva a deningrarlo fino a sostenere che --e un attore che racconta cose inverosimili per far vedere che e dentro il potere, quando in realta al massimo era stato eletto rappresentante della Lega Dilettanti--.

Un amabile cazzaro, in pratica. Figurarsi se poteva mai essere strumento della sottomissione al potere della Lazio e della Fiorentina, come sostengono i giudici...


LEZIONI DI GIORNALISMO Dei giornalisti parla poco, com'era naturale attendersi. Chi non lo riveriva era un nemico, magari strumento dell'--accerchiamento mediatico al quale era sottoposta la Juventus--.

Gli altri, i suoi amici, eroi che si ribellavano a quella prassi.
Ne cita lui qualcuno. Qui, anche nel dovuto rispetto a chi non e piu su questa terra, preferiamo stendere un velo pietoso. Non una parola su quelli che invece, adorandolo, ne hanno tratto evidente giovamento anche e soprattutto nella carriera (mal che andava, grazie alle prebende e ai gettoni di presenza delle trasmissioni televisive, maggiormente cospicui in maniera direttamente proporzionale all'aiuto che poi si poteva dare al "movimento") nelle lunghe stagioni in cui nessuno pensava che poi un giorno qualche magistrato impiccione avrebbe interrotto quel circolo vizioso.
Ai giornalisti che per non abbassare la schiena magari hanno perso opportunità importanti, che hanno visto le improvvise girate di spalle di pariposto e capi, che hanno tollerato l'assegnazione di certi servizi ad altri colleghi magari meno bravi ma piu... capaci di stare al mondo, a chi non ha mai adeguato il suo pensiero a quello in certi mesi imperante, non e dedicata neanche una parola.

E del resto non avrebbero saputo che cosa farsene.


GEA, CHI ERANO COSTORO? Una querela a Moggi arrivera di sicuro da Roberto Mancini. Si, perche dopo aver propinato al lettore la favoletta dei rapporti sempre corretti (--siamo stati i precursori della legalità--, arriva a dire, anche stavolta senza traccia d'ironia) e della perfetta educazione data al figlio secondo i precetti delle famiglie di una volta, Lucianone afferma che lui con la Gea non c'entrava nulla.

Ma sa benissimo chi ne faceva parte.
E tra i tanti, anche --Giuseppe De Mita e Roberto Mancini, che detenevano il 40% della societa tramite la fiduciaria Roma Fides--. Peccato che l'attuale allenatore dell'Inter abbia sempre smentito la circostanza.
Poi per difendere se stesso, attacca tanti altri: lascia intendere che Albertini abbia favorito le nomine come ct di Donadoni alla Nazionale maggiore e di Casiraghi all'under 21 solo perche assistiti come lui dalla coppia di procuratori Bianchini-Pallavicino, che Amelia sia passato a loro dopo la prima convocazione, e che i giovani Marchisio e De Ceglie abbia fatto lo stesso per preparare il terreno ad analoga chiamata. Materia interessante.

Anche Moggi, se vuole, sa essere un buon ficcanaso.
Peccato che in passato non li tollerasse.


L'EPILOGO Poi attacca piu o meno elegantemente sia John sia Lapo Elkann, anche citando l'imbarazzante vicenda personale di quest'ultimo, da sempre indicato come suo grande nemico, ricorda sibillinamente come, nei mesi precedenti lo scandalo, le azioni juventine si fossero notevolmente apprezzate per poi naturalmente crollare (come se qualcuno ci avesse deliberatamente speculato: ecco il complotto),
afferma che non ha mai voluto querelare Travaglio e D'Orsi (i due coraggiosi colleghi che avevano firmato, anche se con uno pseudonimo, il bestseller delle edizioni Kaos, Lucky Luciano) solo perche non voleva renderli famosi, denigra senza entrare troppo nell'argomento l'ex dirigente juventino Maurizio Capobianco (un pentito che ha conservato una serie di documenti giudicati molto interessanti dagli inquirenti che se ne stanno occupando), si pavoneggia dei corteggiamenti di Berlusconi e Moratti salvo poi censurare i loro comportamenti tutt'altro che marginali nella vicenda di Calciopoli (e in questo, forse solo in questo, ha tutta la nostra solidarieta) e infine rammenta a tutti la sua storia, a grandi linee e citando chiaramente solo i successi (sorvolando sugli insuccessi o su cosucce come il doping su larga scala della Juventus, una vicenda secondo lui messa in moto dagli attacchi rancorosi di Zeman e poi sostanzialmente chiarita dai tribunali civili, come se la prescrizione fosse un riconoscimento di innocenza), facendo partire il racconto da quando parti giovanissimo da Monticiano per seguire il sogno juventino tra le prese in giro di quei suoi compaesani che non credevano che un giorno sarebbe diventato famoso.

Sbagliavano, va riconosciuto.

Ma se Lucianone avesse dato loro retta, il paese avrebbe magari un onesto bracciante agricolo in piu e probabilmente un calcio molto, molto migliore.

E, oggi, anche uno scrittore in meno.