giovedì 17 gennaio 2008

200 VOLTE GRAZIE



Quando all'inizio del secondo tempo, nella piovosa serata romana di ieri, il Capitano è entrato in campo ci siamo guardati, allo stadio, negli occhi e abbiamo detto: "E' fatta, possiamo girare pagina".

Ma come diceva Elio, tra il dire e il fare c'è di mezzo e il, e non pensavo che il suo pezzo di partita potesse essere così devastante.
Doppietta, 200 goal, e qualificazione.

200.

Che traguardo. Se uno poi pensa di esserci cresciuto assieme fa davvero effetto.

Fine marzo 1993, 5 minuti dalla fine di Brescia- Roma, 0-2 (Caniggia e Mihajlovic) quando entra in campo ed esordisce in serie A.

C'era il sole, i primi vagiti di una primavera e nell'orecchio la voce di Alberto Mandolesi dallo stadio sulle frequenze di Dimensione Suono Roma che avvertiva. "Entra in campo Totti, ne sentirete parlare".

E 15 anni dopo e 200 goal dopo, cazzo, veramente mi viene un groppo in gola.

Mai quel coro di ieri sera, "Un Capitano, c'è solo un Capitano", acquisisce la denominazione di un vero e proprio articolo di fede.


Questo l'articolo di Tonino Cagnucci da "Il Romanista" di oggi:

"Quando s’è alzato dalla panchina, oltre alla Sud, pure il Piave ha mormorato.

C’era un 24 maggio da conquistare.

I quarti per la finale.

"Coppa Italia sarà" cantavano i soldati.

Quando Francesco Totti s’è alzato l’ha fatto anche la Roma.

Insieme, senza far niente altro che entrare.

Nella storia.

Perché sono la stessa cosa.

Totti e la Roma.

È stato uno dei quei rari casi che capitano nello sport: Mohammed Alì battè Foreman già prima di salire sul ring di Kinshasa, anche lì c’era il mormorio ("Alì bumaye") della gente che l’aveva visto tirare due pugni al vento e parlare di farfalle contro il gigante lento.

La Roma cominciò a vincere lo scudetto il giorno che comprò Batistuta: bastava il fatto, la presenza, il peso specifico, la dimensione.
Il nome. Totti. È bastato che si alzasse perché la Roma si alzasse.

Ha segnato prima di quel piatto destro da prefisso hard (199) e orgasmo infinito, e prima di quel rigore dovuto per mettersi in posa per la storia. Manco Fonzie ha mai fatto tanto.
Duecento volte happy days. Era passata inutilmente un’ora di partita, e a quel punto la stagione a qualcuno poteva addirittura sembrare finita. O scudetto o Champions, o magari tutte e due, ma più difficilmente anche solo uno dei due.

Poi quando è entrato lui è cambiato tutto, e una notte che per troppi inzialmente sembrava banale, poi soltanto triste e grigia e brutta, è diventata addirittura fenomenale (20.000 spettatori sono tanti nel calcio moderno, ma pochi se sei romanista, perché se sei romanista è de più. E non regge nemmeno la scusa che stavolta su La7 non c’era nessuno dei nuovi dj del pallone, ma il Signor Bruno Pizzul: "il grande mercoledì è arrivato...", disse quella volta).

Quattro a zero e casa, giusto per citare l’autore di questa storia cominciata il 4 settembre di 14 anni fa e chissà quando finirà.
The neverend history... Se basta alzarsi dalla panchina per segnare, arrivare ai mille e passa di Pelè è addirittura una probabilità prossima.

Quando l’ha fatto, stanotte, adesso, poche ore fa, a quel punto la notte è diventata dei campioni, l’ottavo l’ottovolante per volare, e in un tempo rimonte da Dundee o da Jena, e un ricordo speciale a piogge da "che sarà sarà" trasformate in sole, o lacrime di Giuseppe Giannini contro il palo in finale.

Contro il Torino.
Pure nell’80 c’era Pizzul a commentare Toro-Roma.
Era tanto.

Non era poco quello che la Roma si giocava, era tutto questo e molto altro: la mentalità giusta, la "doppia" contro Cassano, il restare su tutti i fronti tutti (e il Piave mormora), l’onore di una cerchietto tricolore da tenersi stretto-stretto sopra il cuore.

Inni a San Siro, e che c’è di male se siamo stati tutti là.
È da quando ha lo scudetto sul petto che la Roma supera dritta il primo turno di questa Coppa che vale tanto più di una coccarda. Punta alla quarta finale di fila, punta alla doppia vittoria di fila: quando lo fece inaugurò il ciclo più bello della sua storia: era un’epoca di sogno, in cui le finali di Coppa Italia si giocavano anche in una gara secca, in una finale, all’Olimpico, non a San Siro.

Che c’è di male siamo andati sempre qua.

Quando s’è alzato dalla panchina s’è alzata la Roma che pure va applaudita tutta, a cominciare da Cicinho che c’ha messo (e c’ha lasciato) le palle sulla linea per non farli segnare;
Doni, anche lui adesso sempre primo portiere; Giuly che è un altro fumetto (Topolino) e schioppetta champagne quando corre sprinta e se ne va;
Spalletti che ha rindovinato tutto (e tra le cose più belle c’è - a fine partita - la sua esultanza in un pugno);
De Rossi che per la prima volta nella sua stupenda biondissima storia ha avuto l’emozione di tenersi al braccio la fascia mentre la Curva cantava "C’è solo un capitano": perché entrava.

Duecento gol incominciano a essere un numero, un’occasione rispettata con la storia, una data e un altro appuntamento.

Il 24 maggio, se finale sarà, se Coppa Italia sarà, giocheremo in casa: e il 24 maggio non passa lo straniero".

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