domenica 30 dicembre 2007

BUON ANNO...



Da un'agenzia di pochi minuti fa:

TORINO - E' morto Giuseppe Demasi, 26 anni, il settimo operaio ustionato nell'incendio del 6 dicembre alla Thyssenkrupp di Torino.

martedì 25 dicembre 2007

NATALE

Primo Natale da blognauta e primo giorno in balia dell'Ipod e di Itunes.

La tecnologia è oramai penetrata nella mia vita ed io non posso fare altro che opporre una tenue resistenza, resistenza che nulla può di fronte a quella che resta l'unica festa per eccellenza.

Una festa che unisce laici e cattolici, credenti e non credenti in un tripudio di gioia, di pacchi da scartare, di festoni da riempire, di alberi da addobbare, di presepi da innevare e di stomaci da riempire.

Tanti auguri a tutti, di cuore.



Francesco De Gregori, Natale (1976)



C'è la luna sui tetti e c'è la notte per strada

le ragazze ritornano in tram

ci scommetto che nevica, tra due giorni è Natale

ci scommetto dal freddo che fa.

E da dietro la porta sento uno che sale ma si ferma due piani più giù

un peccato davvero ma io già lo sapevo che comunque non potevi esser tu

E tu scrivimi, scrivimi se ti viene la voglia e raccontami quello che fai se cammini nel mattino e ti addormenti di sera e se dormi, che dormi e che sogni che fai.

E tu scrivimi, scrivimi per il bene che conti per i conti che non tornano mai

se ti scappa un sorriso e ti si ferma sul viso quell'allegra tristezza che c'hai

Qui la gente va veloce ed il tempo corre piano come un treno dentro a una galleria

tra due giorni è Natale e non va bene e non va male

buonanotte torna presto e così sia.

E tu scrivimi, scrivimi se ti viene la voglia e raccontami quello che fai

se cammini nel mattino e ti addormenti di sera e se dormi, che dormi e che sogni che fai.

venerdì 21 dicembre 2007

UN SACCA' DI MANNA


Perchè perdere tempo a scrivere, a sgolarsi, a fare i moralisti quando c'è qualcuno che lo fa meglio di te.
Da "La Repubblica" di oggi l'illuminante pezzo, in prima pagina, di Curzio Maltese:
I SETTE MINUTI DEL PADRONE
"Per capire cos'è stata la politica ai tempi di Berlusconi un saggio serve meno di una telefonata di sette minuti fra il "Presidente" e "Agostino" che chiunque può scaricare dal sito di Repubblica e L'espresso.
Ancora una volta un'intercettazione disvela per caso il vero volto del potere in Italia.
Ancora una volta gli intercettati, Berlusconi in testa, reagiscono lamentando la violazione della privacy, senza mai entrare nel merito dei contenuti.
Devastanti.
Andiamo alla scena.
Protagonisti il presidente, naturalmente Berlusconi, e Agostino Saccà, direttore della fiction Rai, l'uomo più potente della prima azienda culturale italiana, in teoria il capo della concorrenza a Mediaset.
I rapporti sono chiari dal "pronto".
Saccà dà del "lei" a Berlusconi e lo chiama sempre "presidente".
Berlusconi risponde con il "tu" a Saccà, lo chiama "Agostino" e lo tratta come i servi ai tempi di Swift.
Nei sette irresistibili minuti di conversazione, dai quali forse un giorno una Rai libera trarrà finalmente una bella fiction, si mescolano generi teatrali, perlopiù comici, e argomenti.
Si parla di televisioni, attrici raccomandate e politica. Senza soluzione di continuità perché sono la stessa cosa.
"Agostino" declama dall'ingresso in scena la sua natura di servo contento.
Batte le mani al padrone, che fa il ritroso, lo gratifica di "uomo più amato d'Italia" ("lei colma un vuoto nel Paese, anche emotivamente"), usa il "noi" di parte per vantare la sua fedeltà. "Abbiamo mantenuto la maggioranza nel consiglio d'amministrazione Rai".
Quindi, sempre in posizione genuflessa, il servo Agostino porta idealmente la bocca dalla scarpina rialzata del signore all'orecchio per sussurrargli i nomi dei traditori.
Non quello "stronzo" di Urbani, come pensa il signore ma "i nostri alleati", An e Lega, "che hanno spaccato la maggioranza per un piatto di lenticchie".
Lo implora di "richiamarli all'ordine".
Il Presidente prende nota e passa alle comande di giornata.
Ha bisogno che vada avanti la fiction sul Barbarossa ("Bossi mi fa una testa tanta...").
Il fido Agostino acconsente con entusiasmo, ma segnala che il regista Renzo Martinelli ha creato problemi vantandosi troppo con la Padania. Il Martinelli è uno di quegli intellettuali molto di sinistra con eccellenti rapporti a destra e con Mediaset, eppure sempre liberi e alternativi e "contro", checché ne dicano alcuni moralisti borghesi di merda.
Nella sintesi di Saccà, a tratti acuta, "un vero cretino".Comunque non c'è problema, assicura il boss Rai.
La fiction s'ha da fare "perché poi Barbarossa è Barbarossa, Legnano è Legnano".
Argomenti inoppugnabili. Senza contare l'autocitazione. Saccà è infatti il geniale inventore dello slogan "perché Sanremo è Sanremo".
D'altra parte, insiste il servitore, il padrone è così modesto, così liberale, gli chiede sempre tanto poco che è un piacere contentarlo.
"Per la verità, ogni tanto ti chiedo di donne", lo corregge Berlusconi, introducendo la seconda comanda. Si tratta di piazzare la solita Elena Russo e una certa Evelina Manna, per conto di un senatore della maggioranza di centrosinistra col quale Berlusconi tratta la caduta di Prodi.
"Io la chiamo operazione libertà" chiarisce Berlusconi, che quando non racconta barzellette, rivela un involontario ma formidabile sense of humour.
Esaudito il terzo desiderio, il genio Saccà, invece di rientrare nella lampada, come nella tradizione, continua a profondersi in inchini e profferte di servigi.
Tanto che perfino Berlusconi si stufa e lo liquida.
L'intercettazione è allegata all'inchiesta per cui Berlusconi è indagato con l'accusa di corruzione per la Rai e per il mercato dei voti, come ha rivelato Giuseppe D'Avanzo su Repubblica.
In Italia, per effetto del combinato disposto di riforme di giustizia promosse da destra e da sinistra, si sa che i processi a imputati eccellenti finiscono tutti in prescrizione.
In assenza di una verità processuale, le intercettazioni servono dunque nella pratica a farsi un'idea del Paese: e l'ascolto, fornisce anche un'idea sulle persone.
Il Paese degli Agostini e dei Berlusconi è una nazione dove la politica non governa nulla, tranne la televisione.
Al singolare, perché la telefonata tra il leader della destra e Saccà rivela come il sistema berlusconiano sia una vera "struttura delta" che controlla l'universo Tv.
Per necessità, il padrone della televisione è diventato il padrone della politica.
Usa l'una per fare l'altra e viceversa.Ci sarebbe un sistema semplice per interrompere questa perenne fonte di corruzione. Prendere un canestro, ficcarvi dentro in bussolotti una ventina di leggi europee sui sistemi televisivi, quindi estrarne a sorte una.
Questo sistema, che rispecchia più o meno la logica seguita per discutere la riforma elettorale, non è mai stato preso in considerazione. Per quanto la riforma televisiva figurasse nei programmi del centrosinistra, prima e seconda versione.
I leader del centrosinistra, comunque si chiamino, alla fine s'innamorano dell'idea di poter trattare con Berlusconi, portatore di un conflitto d'interessi così gigantesco e pervasivo, accordi istituzionali "nell'interesse della collettività".
Ora, l'interesse di Berlusconi per la collettività è ben illustrato dal suo dialogo con il boss della tv pubblica.
Non si tratta di demonizzare i patti fra destra e sinistra. Se per esempio la sinistra e una parte di destra si trovassero finalmente ad approvare una decente e sempre più urgente riforma della Rai e dei monopoli televisivi, saremmo in prima fila a festeggiare il valore "bipartisan" dell'accordo.
Ma allora si rischierebbe davvero di voltar pagina, di cambiare una politica che così com'è farà schifo ma garantisce a tutti un posto al sole, una fiction, una quota raccomandati e fidanzati, il proprio Saccà pronto ad esaudire i desideri".

martedì 18 dicembre 2007

SPECIALE PER VOI



Da "La Repubblica" di oggi così scrive Giuseppe D'Avanzo:


UN SOLDATO SLEALE


"Che il generale Roberto Speciale fosse un soldato sleale, s'era avuto già modo di apprezzarlo.
Che un militare che giura fedeltà alla Repubblica e all'osservanza della Costituzione potesse spingersi fino a un gesto eversivo di insubordinazione allo Stato democratico, anche il più severo dei suoi critici non avrebbe potuto immaginarlo.
Invece, è accaduto, accade - ed è la vera questione da affrontare - nell'indifferenza di istituzioni distratte o intimidite, nel silenzio di una politica incapace di guardare oltre la propria mediocre convenienza del momento.
Come se in questa storia non fossero in gioco le ragioni prime di una democrazia: la legittimità di un governo eletto dal Parlamento; le sue prerogative di organo costituzionale chiamato ad assolvere il compito di direzione politica del Paese. E' questa legittimità costituzionale che il generale Speciale, con la sua grottesca lettera di dimissioni, nega, rifiuta, disprezza, umilia.
E' alquanto minimalista - quasi gregario - definire soltanto "irrituale" quella lettera, come capita a Romano Prodi. Assai poco convenzionale è per il Quirinale dichiarare - nei fatti - ricevibile quella missiva offensiva per il governo, per poi trasmetterla a Palazzo Chigi.

L'iniziativa di Speciale è davvero soltanto irrituale e il destinatario della lettera può essere correttamente il capo dello Stato?
E' difficile sostenerlo e pare grave accettarlo senza batter ciglio. Il generale infedele sostiene di avere conquistato "il diritto" ad essere comandante della Guardia di Finanza: "gli spetta", dice. E' un diritto che nessuno gli ha riconosciuto.
Non glielo riconoscono a parole nemmeno i suoi avvocati, figurarsi se poteva riconoscerglielo con una sentenza la magistratura amministrativa.


Non è, infatti, nella disponibilità di un tribunale amministrativo il rapporto fiduciario del governo, di cui il capo di un corpo militare deve godere.
Questa fiducia, al di là delle leggerezze amministrative commesse dallo staff di Tommaso Padoa-Schioppa, Roberto Speciale non ce l'ha, l'ha irrimediabilmente perduta.
Tanto basta per dire che mai il generale sarebbe ritornato al comando della Finanza, come conferma anche il ministro dell'Economia. Al contrario, autoproclamatosi "di diritto" comandante - manco fossimo in una Repubblica delle Banane - il generale, bontà sua, decide di dimettersi.

La grammatica istituzionale, nelle sue mosse, degrada a boutade. Prendiamolo sul serio soltanto per un momento. Ritiene di essere ancora il comandante generale della Guardia di Finanza. Vuole abbandonare, offeso nella sua dignità di soldato. Nelle mani di chi deve farlo, di chi ha il dovere di farlo?
La legge è lì per essere rispettata. Articolo 1 della legge 23 aprile 1959, n. 159: "Il Corpo della Guardia di Finanza dipende direttamente e a tutti gli effetti dal ministro della Finanze". Un principio ordinamentale così netto ed esplicito (inconsueto in un sistema giuridico che ama l'indeterminatezza) avrebbe dovuto imporre al generale Speciale di rimettere il mandato - che si è caricaturalmente assegnato - nelle mani del ministro dell'Economia.
Non lo fa perché "non vuole collaborare con questo governo", scrive. Poco male, il governo potrà soltanto guadagnarci.
La faccenda si potrebbe liquidare così soltanto se non fosse assai sinistro che un generale, al comando di 59.874 militari in armi, non accetta di essere alle "dirette dipendenze" di un governo che gode della piena fiducia del Parlamento.
Roberto Speciale non ne riconosce il potere, la legittimità, il dovere costituzionale di decidere dell'indirizzo politico e amministrativo del Paese e quindi anche di scegliere chi deve essere o non deve essere alla guida di un corpo, "parte integrante delle Forze Armate dello Stato e della forza pubblica". Scrive al presidente della Repubblica, perché "è al di sopra di tutto, anche della politica, anche del governo".
E' uno schiaffo all'Esecutivo, che non sorprende in un soldato infedele. Stupisce che il Quirinale accetti di ricevere la lettera del generale. Che, implicitamente, acconsenta che Speciale possa dimettersi da una responsabilità che non ha più e che nessuno - tanto meno il governo - gli ha riconosciuto.
Meraviglia che il presidente della Repubblica acconsenta che un generale non si dimetta nelle mani dell'autorità politica a cui è sottordinato, di cui è dipendente.
Confonde che il capo dello Stato accetti di svolgere il ruolo del tutto improprio di destinatario di una lettera che abusivamente gli è stata consegnata, chiudendo gli occhi sul disprezzo che il generale assegna al governo per di più prendendo per buono un presunto "spirito di servizio verso le istituzioni".
E' un pericoloso, e inedito, precedente nella storia della Repubblica.

Dovremo presto attenderci che il capo della polizia rifiuti di dimettersi nelle mani del ministro dell'Interno o che il capo di Stato maggiore della Difesa non consegni il suo addio al ministro della Difesa, tanto del governo si può fare a meno?
La sensazione è che questo "caso Speciale", nato dalla debolezza del governo e dalla volontà di compromesso con un minaccioso network spionistico e illegale, di cui il generale è stato attore di prima fila, moltiplicherà le sue muffe, se non affrontato con energia.
Di compromesso in compromesso, di timidezza in timidezza, siamo arrivati alla delegittimazione dei poteri del governo.
Considerare quel soldato sleale e infedele, come pare fare oggi la maggioranza, soltanto un dissipatore di risorse pubbliche per qualche viaggio a sbafo in elicottero non è una buona strada.

Meglio sarebbe ricordare la proposta del generale "tutto d'un pezzo" di violare i segreti d'ufficio avanzata al vice-ministro Visco (e rifiutata).
O tenere a mente quando, con il governo di centro-destra, i segreti della Guardia di Finanza diventavano pubblici per essere utilizzati, in piena campagna elettorale, da Silvio Berlusconi con denunce alla magistratura.

Pensare di lisciare il pelo a quel soldato e ai soldati come lui, è peggio di una cattiva idea.

E' un errore politico e istituzionale".

lunedì 17 dicembre 2007

LE MIE PAROLE

Quando davvero non serve altro, quando davvero un testo parla da solo.
Una canzone di qualche anno fa, scritta da Pacifico (colui che ha accompagnato in primavera Fabio Volo nella trasferta parigina di Italo-francese su Mtv), e cantata da Samuele Bersani per una pausa ed una riflessione tra un regalo ed una decorazione.

Le mie parole sono sassi
precisi aguzzi pronti da scagliare su facce vulnerabili e indifese
sono nuvole sospese gonfie di sottointesi che accendono negli occhi infinite attese
sono gocce preziose indimenticate
Sono lampi dentro a un pozzo, cupo e abbandonato
un viso sordo e muto che l'amore ha illuminato
sono foglie cadute promesse dovute che il tempo ti perdoni per averle pronunciate
sono note stonate sul foglio capitate per sbaglio tracciate e poi dimenticate
le parole che ho detto, oppure ho creduto di dire
lo ammetto strette tra i denti
passate, ricorrenti
inaspettate, sentite o sognate...

Le mie parole son capriole
palle di neve al sole
razzi incandescenti prima di scoppiare
sono giocattoli e zanzare, sabbia da ammucchiare
piccoli divieti a cui disobbedire
sono andate a dormire sorprese da un dolore profondo che non mi riesce di spiegare
fanno come gli pare
si perdono al buio per poi ritornare
Sono notti interminate, scoppi di risate
facce sopraesposte per il troppo sole
sono questo le parole
dolci o rancorose
piene di rispetto oppure indecorose
Sono mio padre e mia madre
un bacio a testa prima del sonno
un altro prima di partire
le parole che ho detto e chissà quante ancora devono venire...
strette tra i denti risparmiano i presenti
immaginate, sentite o sognate
spade, fendenti
al buio sospirate, perdonate
da un palmo soffiate

http://www.youtube.com/watch?v=obGpTr3atbc

domenica 16 dicembre 2007

SOS SHARK...


Tremate, tremate, date un occhio alle spiagge, alle onde increspate, a quel movimento, a quel rigoletto di schiuma che si forma mente una bella ragazza in costume fa il bagno inconsapevole.
Una bracciata a stile libero, ma una pinna, le urla agghiaccianti, il sangue, lei che viene portata giù, risale, respiro spezzato, 5 secondi di silenzio, atroce, e Gnaaaaaaammm, ce la siamo giocata, buon appetito,
mentre la pinna affiora pericolosamente sulla cittadina di mare inconsapevole che continua a ballare, a diveertirsi, inconsapevole....
Ecco, se credete che le cose vadano come in un volgare b-movie degli anni' 70 correte da Enrico, correte da Sampla per "rinfrescarvi" le idee e poter fare "un tuffo dove l'acqua è più blu".
E come colonna sonora il buon vecchio Nico Fidenco perchè c'è lo squalo, ho paura e quindi "No, quest'anno al mare non andrò con te sulla spiaggia..."

martedì 11 dicembre 2007

INVERNO TORINESE


984, questo è il numero dei morti sul lavoro fino a domenica scorsa.

Quel che è avvenuto a Torino, fabbrica Thyssen-Krupp, 4 operai morti, morti in maniera orrenda dopo un'agonia indicibile.

E ieri il giorno del dolore, i funerali, lutto cittadino a Torino, la Torino rilucente del Natale, la Torino messa a nuovo dopo i giochi olimpici invernali del 2006, la Torino ipnotizzata dal curling, la Torino ferita dalla calciopoli bianconera.

Dietro il feretro dei 4 la Torino politica, i gonfaloni, i sindacalisti, parole, parole, le solite parole vuote, inutili, insincere verso chi è straziato da un lutto indicibile.

Ma qualcosa nel quadretto irenico è andato storto.
Nino Santino, il papà di Bruno (uno degli operai morti) ha detto basta. "Assassini, bastardi, la pagherete cara!" ha urlato seguito dai fischi compatti della folla.
In un paese dove l'educazione cattolica fa sì che si debba sempre perdonare, sempre porgere l'altra guancia, chiedendo scusa di aver subito un torto, qualcuno ha deciso di non starci.

Maurizio Crosetti, su "La Repubblica" di oggi, ha usato parole forti "Sembra quasi un funerale palestinese, dove si alzano le foto dei morti a futura memoria".
Un operaio, padre di operaio, senza più figlio, distrutto come solo sa esserlo un padre che sopravvive al figlio, ha avuto la forza di sbatterci in faccia una verità, quella che sindacalisti, politici e imprenditori hanno sempre saputo: no a lacrime di coccodrillo dopo che si sono firmati accordi che permettono di lavorare in turni massacranti e senza misure di sicurezza.

Giovedì in Duomo solenni funerali con quattro salme benedette da un cardinale. Ma almeno giovedì bando a vuote ciance, spazio solo ai familiari, agli amici, ai compagni.

Gli altri, tutti gli altri, forse è meglio che vadano a fare dello shopping natalizio e che sottobraccio, assieme, continuino a calpestare la dignità del lavoro ma almeno lontano da chi lavora e soffre quotidianamente pedalando e soffrendo.

Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.

domenica 9 dicembre 2007

UN ANNO SENZA ALBERTO



Un anno fa moriva Alberto D'Aguanno, inviato sportivo di Mediaset, all'età di 42 anni. Oggi è stato toccante il ricordo di Sandro Piccinini a Controcampo utilizzando quella che era la sua canzone preferita, No surprises dei Radiohead.

Lo voglio ricordare in quanto apprezzavo moltissimo la sua simpatia, la competenza e, dulcis in fundo, il suo essere un ultrà romanista.

Un romanista di Monza.

venerdì 30 novembre 2007

SPARRING PARTNER


"Ho guardato in fondo al gioco
tutto qui?...ma-sai-
sono un vecchio sparring partner
e non ho visto mai
una calma più tigrata
più segreta di così
prendi il primo pullman, via...
tutto il resto è già poesia..."
Paolo Conte, Sparring Partner, 1984

sabato 17 novembre 2007

KU KLUX KLAN DE' NOANTRI



Su questo blog vi ho spesso parlato della mia stima per Alessandro Portelli, docente di letteratura angloamericana all'università La Sapienza, delegato per la memoria del Comune di Roma ed uno dei massimi esperti di storia orale, di quanto i suoi libri sulle Fosse Ardeatine, sui quartieri romani, sulla storia di Terni o gli affreschi sulla letterarietà dei testi di Bruce Springsteen mi abbiano sempre colpito.

Ebbene il prof. Portelli ha un blog nel quale, mentre io compivo 30 anni, esponeva lucidamente il suo punto di vista sull'emergenza sicurezza che tanto stimore sta spargendo per il paese. Anche io non ne sono immune, mi sto ponendo molte domande sull'atteggiamento da tenere su queste tematiche ma le parole di Portelli pongono un primo step davanti al quale dobbiamo obbligatoriamente fermarci:

"Nella sua autobiografia, Black Boy, Richard Wright ricorda la paura con cui cresceva un ragazzo nero nel Sud razzista degli Stati Uniti: ogni volta che succedeva qualche cosa, scrive, “non era un crimine commesso da un nero, ma dai neri.”

Tutti i neri erano colpevoli, qualunque nero andava punito, e la forma della punizione era il linciaggio.

Ai linciaggi ci siamo arrivati.

Il delitto di Tor di Quinto non è stato commesso da un rumeno, ma dai rumeni, e dieci cittadini italiani purosangue, con coltelli e bastoni, e incappucciati come il Ku Klux Klan, fanno giustizia a Tor Bella Monaca. Ed è inutile condannare queste cose a posteriori, bisogna pensarci prima alle conseguenze di certi discorsi.

Ma è ben avviato sulla strada della punizione collettiva, a colpevoli e innocenti indiscriminatamente, anche lo sbaraccamento del campo di Tor di Quinto; è una punizione collettiva e preventiva il “trasferimento” dei rom oltre il raccordo anulare, spostare il problema un po’ più in là, come la polvere sotto il tappeto.Perché è vero che il problema esiste, non nascondiamoci dietro un dito.

L’associazione che gestisce un campo sportivo accanto al terreno di Tor di Quinto da anni denunciava furti continui, scriveva al sindaco e non riceveva risposta.

La Romania (ma non era l’Albania, fino a qualche mese fa?) europea e democratica liberatasi dal comunismo non ci ha mandato soltanto il meglio di sé, come d’altronde l’Italia dell’emigrazione non ha mandato e non manda soltanto il meglio di sé in America o in Germania. Le migrazioni sono fiumi che si portano appresso anche un sacco di detriti, e non c’è diga che tenga. Ed è vero che la sicurezza è un requisito importante della vita civile, un diritto democratico: di che altro parlavano le donne che, almeno trent’anni fa, prima che ci fossero albanesi o rumeni a Roma, manifestavano con lo slogan “riprendiamoci la notte”?

Ha detto il segretario del Partito Democratico che la sicurezza non è né di destra né di sinistra.

Giusto.

Però sono di destra o di sinistra le definizioni che ne diamo, e le risposte che proponiamo. Tutte e tutti abbiamo il diritto di uscire da una stazione di sera senza avere paura; ma tutte e tutti abbiamo anche il diritto di non essere ammazzati in carcere a Perugia o a Ferrara, di manifestare senza finire torturati a Bolzaneto. Certo, per le persone ordinarie il rischio di strada è più immediato e concreto del rischio in carcere o in piazza; ma c’è uno scivolamento pericoloso, quando lo stato che chiamiamo a garantirci la sicurezza dai crimini dei marginali si considera al di sopra delle leggi e delle inchieste. Tanto che uno esita prima di dire che, in certi luoghi e in certi tempi, prima che i delitti avvengano, ci vorrebbe più polizia (polizia, dico: non vigilantes privati).

Io non so se sarebbe stato di destra o di sinistra illuminare meglio quella strada e quella stazione (quelle stazioni: io e la mia famiglia frequentavamo quella successiva, a Grottarossa, e avevamo paura di scendere la sera, anche se non c’erano ancora rumeni nei dintorni). Fra l’altro, sono convinto che l’abbandono è anche conseguenza (di destra o di sinistra?) della rinuncia a fare delle ferrovie urbane una seria alternativa al feticcio automobile, ma questa è anche un’altra storia. E non so se sarebbe di destra o di sinistra accorgersi prima che sia troppo tardi delle condizioni criminogene in cui vivono migliaia di nostri concittadini europei, e fare qualcosa per i diritti umani di quella maggioranza di loro che non è venuta qui per delinquere.

Anche loro hanno diritto alla sicurezza.

Dopo il linciaggio di Tor Bella Monaca, il ministro degli interni Amato dice, “è quello che temevo”; il prefetto di Roma Mosca dice, “era quello che temevamo.” Bene: che cosa avete fatto per prevenirlo?E poi, ovviamente, la punizione ci vuole: personale e col dovuto processo di legge, non collettiva e vendicativa; ma ci vuole.

Stavolta, anche grazie all’aiuto di una donna del campo, il colpevole è già in prigione e sconterà la giusta pena, con la dovuta certezza.

Ma gridare al “pugno duro” è infantile e strumentale. S

appiamo benissimo, e se ne stanno accorgendo persino gli Stati Uniti, che nemmeno la pena di morte fa veramente da deterrente alla criminalità. Inseguire la destra sul piano della repressione è come la corsa di Achille e la tartaruga: loro stanno sempre un po’ più in là, un po’ oltre. Più parliamo il loro linguaggio, più facciamo propaganda alle loro idee, più gli prepariamo la rivincita.

Se non vogliamo ritrovarci, come da più parti già si annuncia, con Fini sindaco di Roma, proviamo a fare nostre le sagge e preoccupate parole di Stefano Rodotà: “Serve davvero, con ‘necessità e urgenza’, un’altra forma di tolleranza zero. Quella contro chi parla di ‘bestie’ o invoca metodi nazisti. Non è questione di norme. Bisogna chiudere la ‘fabbrica della paura’. E’ il compito di una politica degna di questo nome, di una cultura civile di cui è sempre più arduo ritrovare le tracce.”

domenica 4 novembre 2007

RO...MANIA

Questo è il paese delle mode e ora dagli al rumeno, tutto ciò che accade deve essere ricondotto al paese di Dracula.
L'efferato omicidio della signora Giovanna a Tor di Quinto ha smosso coscienze, svegliato anime dormenti e scatenato dotti dibattiti.
Anche il mondo del calcio, non sempre sulla notizia, è stato toccato dall'evento.

Emittenti radiofoniche che quotidianamente raccolgono perfino i sospiri dei calciatori di Roma e Lazio con ascoltatori che conoscono il colore delle mutande di Mexes o il buco del calzino di Rocchi, hanno messo in secondo piano il risultato del derby per discorrere del problema immigrazione.

Risultati, mah!

Tra una richiesta di pena di morte e la riapertura dei forni crematori ci sono due perle. A Radio 6, nel programma condotto da Alessio Buzzanca e "D'Artagnan" Pantano, c'è un intervento di Guido Paglia (capo relazioni esterne Rai, ex capo ufficio stampa della Lazio, ex inviato de "Il Giornale", non indifferente al fascino di An) che così recita "Sono contento che il governo stia cacciando tutti i rom-anisti" (Cfr. articolo di Stefano Pacifici su Il Romanista di ieri).

E, per capire quanto le parole di Paglia crescano in un humus culturale diffuso, ieri sera durante Lazio-Fiorentina di campionato, Adrian Mutu è stato insultato con cori quali "zingaro rumeno di merda", aspettiamo squalifica dell'Olimpico please...


Fiduciosi che purtroppo oggi altre tifoserie (Roma compresa) diranno la loro su questi argomenti con la stessa linearità e profondità degli esempi succitati direi: se vi interessa vedere quanti centimetri un giocatore è in fuorigioco o perchè un allenatore si fissa con un modulo perchè non parlate di questo?
E prendete esempio dalla cerimonia funebre ecumenica di ieri (la signora Giovanna era valdese) nella quale non sono mai risuonate parole di vendetta.

E a Fini, Casini, Alemanno ieri presenti in chiesa per speculare sul dolore altrui chiedo di guardarsi nella loro intima coscienza. Con che coraggio si prega quando poi le loro parole di tutti i gioerni rappresentano la stura e/o la giustificazione di raid squadristici come quelli di qualche giorno fa?

Neanche di fronte alla morte si acquista un pò di dignità, che pena...

giovedì 1 novembre 2007

QUELLI CHE...





Quelli che Vucinic è 'na pippa...

Quelli che "amo comparato l'unico slavo bbono"

Quelli che senza Totti non si vince

Quelli che il Milan è una squadra de' vecchi

Quelli che la Lazio sì che gioca bene

Quelli che Delio Rossi, si che è un signore

E Calciopoli, e le sue telefonate per ammorbidire il Lecce?

E Zauri, Zauri, Luciano Zauri da Città S. Angelo, capitano laziale che come risponde ad una battuta di Totti, "Lo scudetto si vince con le piccole"?

"Totti ha mostrato ancora una volta di essere poco intelligente".

Un minuto di raccoglimento per lui...

martedì 30 ottobre 2007

GENOVA PER NOI


"Grazie perchè" cantava nel 1985 Gianni Morandi assieme ad Amy Stewart.

Grazie all'Italia dei Valori di Di Pietro e all'Udeur di Mastella perchè, ci fossero ancora pochi dubbi, abbiamo capito di che pasta sono fatta queste due stampelle del governo Prodi.

Hanno votato assieme al Polo in commissione affari costituzionale della camera, riuscendo a bloccare la creazione di una commissione parlamentare sui fatti di Genova del 2001. Quelli che potevano cambiare le sorti della votazione, due deputati della Rosa nel Pugno, erano allegramente in altre faccende affaccendati pensando bene di non rientrare in Commissione.

Risultato? L'idea della commissione va in naftalina, facendo esultare il polo di centrodestra.

Che bella famigliola: ispiratori dell'indulto attualmente sotto inchiesta, tangentisti craxiani, libertari cannati, forcaioli amici delle guardie tutti assieme in una bella ammucchiata degna dei film di Joe D'Amato (Che Dio ti abbia sempre in gloria Joe...).
Ma d'altra parte come pensare che la siatuazione potesse essere diversa quando il Capo della polizia dell'epoca, De Gennaro, è diventato capo gabinetto del ministro Amato?

Carini Mastella e Di Pietro, sempre litigiosi, ma uniti quando si tratta di non toccare i potenti e di stare dalla parte della divisa ma d'altra parte anche il commissario Basettoni era amico di Gambadilegno

Che poi la commissione fosse vergata a fuoco sulle pagine del programma dell'Unione e che la traballante maggioranza al Senato si regga anche sul voto di Heidi Giuliani, mamma di Carlo ucciso da un carabiniere servitore della repubblica italiana, fa soltanto storcere la bocca in una smorfia di disgusto.

venerdì 19 ottobre 2007

DA QUI ALL'ETERNITA'


E anche Deborah Kerr ci ha lasciato. A 86 anni l'attrice scozzese ha lasciato una vita davvero entusiasmante e piena di soddisfazioni cinematografiche coronate dall'Oscar alla carriera nel 1990.
Grande attrice e splendida donna.
Per ricordarla niente di meglio che rammentare quello che forse resta una delle scene più sexy della storia del cinema.
Allora, anno di grazia 1953, Fred Zinnemann (il regista di Mezzogiorno di fuoco) dirige Da qui all'eternità, un bel melodrammone che ripercorre la non lontana esperienza americana durante la seconda guerra mondiale. Tante storie sovrapposte in quell'estate del 1941 a pochi giorni dall'attacco giapponese su Pearl Harbour e su tutte il torrido amore tra il sergente Milton Warden (Burt Lancaster) e Karen Holmes (proprio Deborah Kerr).
E le spiagge del Pacifico, delle Hawaai saranno il più bel palcoscenico dell'amore tra i due ed i loro baci danno veramente un brivido pensando che si tratta di immagini di 56 anni fa anche se basta guardare il fisico, il look dei due per vedere quanto in realtà siano moderni.
I baci appassionati di due giovani per i quali la guerra rappresenterà un addio alla giovinezza ed un salto impetuoso nell'agone della vita.
Ma quei baci sulla spiaggia restano un ricordo davvero indelebile così come il dialogo tra i due "Nessuno mi aveva mai baciato così", "Nessuno?", "Nessuno".

martedì 16 ottobre 2007

LA VITA AGRA


Ho avuto la fortuna, nella mia vita, di aver letto tanti libri e rimango però sempre sorpreso quando ne leggo uno che mi lascia belle sensazioni.
Il merito va tutto a Luciano Bianciardi ed alla sua "La vita agra"(1962), un volume che quando uscì scatenò un pandemonio.
Occhio alla data, pieno boom economico, paese ottimista, vitale, convinto che le penurie del dopoguerra fossero finite per sempre, la Dc inaugurava la strada verso il centrosinistra con le nazionalizzazioni dell'energia elettrica e la riforma della scuola media unica. Insomma, ottimismo a tutta callara, via verso lo sviluppo, al bando fame e stenti.
Tutto giusto ma si dà il caso che Bianciardi non la pensasse proprio così ma chi era Bianciardi?
Luciano Bianciardi era un intellettuale, uno scrittore, un professore di liceo che, vivendo a Grosseto dal 1922, da quando ci era nato, si era stancato e colse l'occasione di una chiamata alla neonata editrice Feltrinelli per salutare la Maremma e trasferirsi a Milano.
Lasciata la moglie ed una figlia si trasferisce nella capitale lombarda ma presto il sogno si trasforma in incubo. Bianciardi si sente disadattato, odia quella vita a cento all'ora, le falsità delle case editrici, la vita da poveraccio in giro per pensioni luride, in trattorie dove potevi trovare uno scarafaggio nell'insalata assieme ai pittori di Brera.
Il licenziamento dalla Feltrinelli, la scelta di tradurre in casa (sua la versione pirotecnica di "Tropico del cancro" e "Tropico del capricorno" di Henry Miller) in modo da conservare una certa autonomia. L'incontro con Maria, giovane militante comunista romana, il vivere con pochi soldi, tradurre assieme, dormire, scopare, arrivare al 27.
E intorno a loro questi milanesi incazzati, senza amore, sempre di fretta, aridi, che sui tram affollati non si parlano, si evitano e anzi Bianciardi si stupirà del fatto che le persone li aspettino anche una fermata prima del capolinea.
Stanco, stufo, Bianciardi scriverà quella che chiamerà" la storia di un'incazzatura", un libro contro Milano, "la storia di una nevrosi, la cartella clinica di un'ostrica malata che però non riesce nemmeno a fabbricare la perla".
E diventerà un caso, pochissime stroncature, tirature altissime.
Ma Luciano Bianciardi aveva cominciato a morire, a bere, ad ammalarsi di cirrosi epatica ed una depressione latente lo porterà a spegnersi nel 1971, solo, a Milano. Maria se ne era andata, con il figlio Marcello, stanca di un uomo del genere.
Lui aveva scritto altri romanzi, collaborava alle pagine culturali de "Il Giorno", fu chiamato da Gianni Brera a curare la posta del "Guerin Sportivo", critico televisivo per "Abc", una delle prime riviste porno soft.
Il libro: un diluvio, un profluvio di parole, di invenzioni linguistiche, di malinconia, di gioia, di odio viscerale per Milano e di rimpianto per la Grosseto natia. Una critica dura, sferzante e senza ritorno del boom economico, di tutte le convenzioni, le falsità di una società nata vecchia che con una botta di cipria, da vera cocotte provinciale, cerca di mostrare quello che non è.
Una Milano che stava cominciando a diventare grande, che sotterrava i vecchi navigli, che spianava i quartieri operai, popolari, le case di ringhiera per costruire grattacieli, per giocare ad essere la New York italiana. Di lì a pochi anni ci sarà la calata dei socialisti craxiani che, stanchi del sol dell'avvenire, preferiranno il verde dei bigliettoni, tangenti, feste, il nulla.
E Milano, parole e musica di Ivano Fossati, diverrà "livida e sprofondata per sua stessa mano".
Solo che 21 anni prima Bianciardi l'aveva già capito chiudendo gli occhi in una casa vuota del capoluogo lombardo, al buio, circondato da bottiglie, terribilmente e per sempre vuote.
Per saperne di più, Pino Corrias, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano, Baldini & Castoldi, Milano, 1993

lunedì 15 ottobre 2007

LE VENT NOUS PORTERA...

Bertrand Cantat, il leader dei Noir Désir, condannato a otto anni per aver ammazzato la sua compagna Marie Trintignant, ha ottenuto la libertà provvisoria e domani lascerà il carcere di Muret.

La mamma della Trintignant, Nadine, non ha smesso di criticare a voce alta tale provvedimento arrivando a chiedere al presidente Sarkozy, con una lettera al quotidiano "Le Figaro" di bloccare il provvedimento.

Sembra passata una vita da quel luglio del 2003 quando Cantat uccise, durante un litigio in un albergo di Vilnius (Lituania), la sua compagna. Non fu uno dei tanti atti di violenza casalinga verso le donne perchè i due non erano una coppia qualunque.

Lei, famosa attrice, e figlia deell'attore Jean Louis, da sempre impegnata politicamente a sinistra.
Lui un simbolo della musica impegnata, leader di un gruppo musicale famoso per l'appoggiare cause civili, orgogliosamente comunista e antifascista.
Sembravano fatti l'uno per l'altra ma la gelosia, la violenza hanno portato Cantat dritto all'inferno.

E ora, uno di quei dilemmi che sempre si pongono in casi come questi.

Il detenuto modello ha fatto di tutto per comportarsi bene tanto da poter usufruire della libertà provvisoria.
Il dolore dei familiari, la felicità dei fans di rivedere il proprio idolo tornare sulle scene.

Sì, perchè gli altri tre musicisti, che mai hanno abbandonato l'amico in difficoltà, hanno intenzione di tornare assieme rispettando l'unico limite deciso dal giudice: Cantat è vincolato a non parlare, nè in prosa e nè in musica, della vicenda che lo ha visto protagonista.

Il paese però sembra spaccato: anche tra gli amanti dei Noir Désir il misfatto ha lasciato solchi profondi. Come si concilia un atto così comune, quasi banale nella sua crudeltà, con una vita descritta come diversa? I principi, l'antirazzismo, l'antifascismo, l'essere a sinistra con un assassinio così feroce?

Ma soprattutto le parole dette e pensate sembrano solo un fastidioso brusio di fronte al dolore dei genitori che quotidianamente vanno a visitare la tomba di Marie, nel verde prato del Père Lachaise, accanto a Edith Piaf e Jim Morrison.

La fine è nota.
La giustizia va avanti automaticamente, il giudice non può ma soprattutto non deve agire con il cuore ma secondo legge. Sul campo rimangono l'assassino, i genitori ed i quattro figli della vittima.

Ed è in questo rapporto circolare che forse sta il dramma nel dramma.

domenica 7 ottobre 2007

EPPURE SOFFIA


Il 7 di ottobre del 2002 moriva Pierangelo Bertoli, un cantatutore del quale si sente molto la mancanza e che in pochi ricordano.
Mi piace ricordarlo con una sua canzone "Il centro del fiume" che credo sia sempre attuale.

domenica 30 settembre 2007

ORE 18: LEZIONE DI CALCIO


Quel che è giusto è giusto.
Ieri pomeriggio l'Inter ha schiantato la Roma e l'ha costretta ad una sconfitta umiliante, perfino forse più di Manchester. Partita mai in dubbio e risultato giusto. Mi dispiace fare i complimenti a Roberto Mancini ma forse i giornalisti sapientoni la smetteranno di insultarlo per l'invidia che una grandissimo ex giocatore è riuscito anche come tecnico pur rimanendo una spanna dietro ai migliori allenatori italiani.
Uno dei suoi più acerrimi nemici è il nostro vecchio amico Roberto Beccantini, inviato de "La Stampa", che ha raccontato la partita, tranne alcuni toni un pò hard, in maniera veramente onesta e noi gli vogliamo dare atto, in questo caso, di aver fatto un buon lavoro.
Sperando con ieri sera di aver chiuso i conti con batoste similari.
"L’Inter sbrana la Roma, che sarà pure la più bella del reame ma nelle ultime tre partite ha raccolto la miseria di due punti e incassato qualcosa come otto reti: due dalla Juventus, due dalla Fiorentina, più le quattro di ieri.
Lo sgorbio iniziale di Mancini e il rosso diretto a Giuly spiegano molto, non tutto. Totti e c. erano riusciti a tornare, casualmente, a galla. È stato lì che l’Inter ha alzato la voce e domato l’Olimpico, costringendo Totti prima alla resa e poi all’abbandono.
Nella guerra dei fazzoletti, succede che a Mancini (Roberto) venga l’idea di scopiazzare Spalletti, una punta sola, Ibrahimovic, con Figo e Cesar a supporto. Né un 4-3-3 ortodosso, né un vero e proprio 4-2-3-1. Ma siamo lì. Certo, Ibra è più punta di Totti, un Totti che, su punizione, disattiva subito l’antifurto interista: Julio Cesar è bravo a smorzarne la saetta e bravissimo, addirittura, a parare da terra lo «schiaffetto» scellerato del Mancini brasiliano.
Non sono passati nemmeno due minuti: arrivederci Roma.La Bella gigioneggia, la Bestia simula sbadigli che, viceversa, si riveleranno morsi letali. Nell’occupare il campo, i campioni squarciano drasticamente il torello degli avversari.
Non che diano spettacolo, tutt’altro, ma limitano i danni, pronti ad addentare il primo boccone randagio. Che poi sia Totti in persona a offrirglielo, è un dettaglio che appartiene alle selvatiche risorse del calcio. E così da un angolo calibrato in maniera oratoriale dal re delle parabole (l’intenzione era servire Pizarro), si scatena il più lungo e ficcante contropiede che l’Inter mai nella vita avrebbe pensato di poter dispiegare proprio all’Olimpico, proprio sullo 0-0 e proprio in una sfida di vertice. Maxwell taglia l’erba, Doni salva il salvabile su Cesar, Giuly si immola sull’incornata di Ibra. In un colpo, rigore ed espulsione.
Un anno fa, dal dischetto, Zlatan fece cilecca; stavolta no.È il 29’. Segnatevi questo minuto. Spacca la partita. L’uomo in meno ingessa una Roma che, per la verità, era già apparsa molle, confusa e sterile. Mancavano Aquilani e Taddei: dove le mettiamo le serenate sciolte alla qualità del mercato romanista? Il primo a non dare segni di reazione è Spalletti. L’alibi Manchester non regge. La gabbia di Dacourt, Figo, Stankovic, Cambiasso e Cesar blinda le fasce, Panucci e Tonetto non sanno che pesci pigliare, Pizarro ne azzecca poche, De Rossi non si stacca dalla garitta, a Samuel e Cordoba non resta che dare una spolveratina ai mobili.
Si gioca per onor di firma anche se, in avvio di ripresa, Pizarro sfrutta una leggerezza di Maxwell e spalanca la porta a Perrotta. Mancini aveva appena «licenziato» Dacourt e Ibrahimovic, toccato duro da Juan. Dentro Crespo e Cruz. Due attaccanti. Il minimo, contro una squadra in dieci. Il tempo di incassare il pareggio e tirarsi su le maniche.
Dopodiché, nel giro di tredici minuti, fuoco alle polveri: palo di Cruz, gol di Crespo al culmine di un ping pong Doni-Cambiasso, gol di Cruz, dal limite, su tocco di Figo, gol di Cordoba, di testa, sempre su iniziativa del portoghese. Morale: 1-4, come Roma-Juventus del 19 novembre 2005.
Gli ingressi di Vucinic, Cicinho ed Esposito (al posto di Totti) ingrassano il tabellino, non la partita, diretta in punto di regolamento da Rizzoli. Mexes e Cesar gradirebbero menarsi: li dividono a un passo dal primo round.
Che botta, ragazzi. Non parlo della contrattura di Perrotta (auguri). Parlo del risultato. Crespo, Cruz: i cambi hanno contribuito a scavare la differenza, introdotta dall’errore di Mancini e accentuata dal «sacrificio» di Giuly.
Forse, avrebbe fatto meglio a non immolarsi. Gol per gol, la Roma sarebbe rimasta a pieno organico. L’1-0 di Supercoppa sembra appartenere a un altro secolo. Sampdoria, Roma: l’Inter si è tolta qualche sassolino.
E Roberto Mancini, così a naso, qualche macigno".

giovedì 27 settembre 2007

MUTU DAVANTI AI TIRI MANCINI...


Solo per i complimenti all'articolo dell'inviato del Corriere dello Sport a Firenze, fiorentino di nascita e viola di cuore, Alberto Polverosi:
"FIRENZE - E’ stata una partita così bel­la che solo una vittoria avrebbe potuto sciuparla.
Paradosso, certo, ma Fioren­tina e Roma hanno giocato un calcio tan­to spettacolare da non meritare di per­dere.
Stupenda la Viola per 90 minuti, fantastici i giallorossi nel rispondere col­po su colpo.
Grandioso Mutu, che ha se­gnato su rigore col cucchiaio alla Totti, grande tutta la Roma anche nei momen­ti in cui ha sofferto di più. Spalletti non aveva il suo capitano e forse per questo è mancata la stoccata letale, ma dalla sua squadra ha avuto risposte stupende.
Ieri sera, sul Franchi fradicio di piog­gia, si è visto davvero il meglio del cal­cio italiano di questo momento. C’erano due squadre che hanno giocato palla a terra, in piena velocità, attaccandosi in ogni settore del campo. C’è stato, è vero, qualche errore nei passaggi, ma era pro­prio quel ritmo infernale a impedire che ogni tocco fosse anche preciso al milli­metro.
Il primo tempo si è chiuso con la Roma in vantaggio, ma senza che la Fio­rentina lo meritasse. Anzi. Come nume­ro e qualità di occasioni da gol, i viola sono stati superiori alla Roma, hanno controllato meglio la manovra e se al po­sto del lento (troppo lento) Liverani di ieri avessero avuto un centrale più svel­to, i giallorossi avrebbero faticato ancor più a controllare il loro arrembaggio.
Però la storia è nota, se alla Roma con­cedi non un varco, ma solo uno spiraglio, sei fregato. E’ successo ai viola che, par­titi bene, sono stati avvisati dopo 11' da una conclusione di Mancini in fondo a un’azione nata da una delle palle smar­rite per strada da Liverani. Mancini ha segnato al 19', con un tocco straordina­rio, degno del suo immenso repertorio: cross di Cicinho, velo di Giuly, con la co­da dell’occhio il brasiliano ha visto Frey qualche passo fuori dalla porta e lo ha battuto con un ‘cucchiaio’ di tottiana me­moria.
In 5 minuti la Fiorentina ha pa­reggiato per un’uscita sbagliata da Doni (con spizzata di De Rossi) su angolo di Semioli: Gamberini, sul secondo palo, ha messo dentro.Da allora, fino al vantaggio di Giuly, è stata tutta Fiorentina. Bella, brillante, aggressiva, molto tecnica quando passa­va da Mutu, in certi momenti imprendi­bile per la difesa romanista. Che soffri­va, come si era già visto in occasione del gol di Gamberini, sul gioco aereo. Cicin­ho ha salvato a due metri dalla porta im­molandosi su un tiro di Mutu, che ha col­pito poco dopo la base del palo esterno e poi ha costretto Doni a una grande para­ta su colpo di testa.
Nel frattempo, il guardalinee Comito aveva fermato Man­cini davanti alla porta per un fuorigioco che non c’era ( la palla gli era arrivata da Ujfalusi) e nella stessa azione su Vu­cinic era stato commesso un fallo da ri­gore.Taddei è uscito per infortunio, Spal­letti ha inserito Aquilani come trequar­tista e Giuly si è spostato sulla destra. Mossa perfetta: è stato Aquilani a dare al francese la palla del 2-1. Pasqual ha sba­gliato il movimento e Giuly non l’ha per­donato.
Ha cambiato anche Prandelli, a inizio ripresa, ma per scelta. Fuori Live­rani, dentro un altro esterno, Santana, squadra ridisegnata col 4-4-2 con Mutu in appoggio a Pazzini. A Montolivo è an­dato il comando delle operazioni. Per un quarto d’ora, la Roma non è più uscita, la spinta della Fiorentina era robusta, ma ha prodotto una sola conclusione di Uj­falusi, in area, finita altissima.
E’ stato Cicinho a rompere la pressione dei vio­la con un’altra discesa minacciosa con­clusa da Vucinic ma deviata in angolo da Gamberini. Quando è entrato Panucci al posto di Mancini, Cicinho è salito come esterno offensivo.Prandelli ha aumentato il peso dell’at­tacco con Vieri al posto di Semioli e Mu­tu è tornato sulla fascia. La Fiorentina ha pareggiato su rigore: Ferrari ha ste­so Vieri dopo che Mutu aveva steso mez­za difesa romanista e piazzato l’assist per Bobo.
E’ stato il rumeno a segnare con un cucchiaio: Totti era a Roma, ma sembrava che fosse qui. I viola hanno raggiunto il 2-2 mentre la Roma era già sfuggita alla loro pressione e Frey si era ampiamente riscattato della leggera di­strazione con tre interventi stupendi. Donadel è stato espulso per il secondo giallo, ma in 80 minuti era stato l’anima dei viola.
La Roma ha cercato di sprinta­re nel finale, ma nemmeno la Fiorentina ha smesso di attaccare.
Da applausi tut­t’e due, ma applausi sinceri".

mercoledì 26 settembre 2007

LA PORTI UN BACIONE A FIRENZE


Mai articolo mi ha trovato così d'accordo.
Stasera magari perdiamo pure però alcune cose andavano dette e grazie a Stefano Petrucci da "Il Romanista" di oggi:
"Le due squadre che giocano il calcio più bello d'Italia? Spalletti alla vigilia non l'ha detto, e neppure Prandelli.
Magari lo pensano: sono diversi in mille cose, non nella cultura del lavoro, non nel modo di inseguire il risultato attraverso il gioco, non nella capacità di costruire formazioni che sappiano attaccare con costanza senza farsi sommergere di gol. Logico che nutrano stima l'uno per l'altro, normale siano orgogliosi delle proprie creature.
Strano destino, il loro: si sono incrociati sulla panchina della Roma, sia pure a un anno di distanza; hanno entrambi il viola nel cuore, Spalletti per antica simpatia giovanile, Prandelli soprattutto per contratto, ma anche per affetto e gratitudine. La loro storia è quasi lo specchio dell'intrico che pare legare Roma e Fiorentina da sempre.
Prandelli fu la prima scelta di Sensi (e di Franco Baldini), quando Capello sposò la Juve: non fosse stato travolto da problemi famigliari - e ambientali - più grandi di lui, si sarebbe legato al giallorosso per chissà quanto tempo. Quando sbarcò a Trigoria, fotografò i tifosi in festa col telefonino, girando subito le immagini al figlio. Quando la lasciò, dopo un paio di mesi di sofferenze e di dubbi, le lacrime agli occhi.
Spalletti ne raccolse in fondo l'eredità, sia pure con dodici mesi di ritardo, a capo di due clamorosi fallimenti (Voeller e Delneri) e di un affannoso salvataggio (Bruno Conti). Forse Prandelli avrebbe compiuto la stessa opera di ricostruzione, di certo Luciano l'ha avviata e poi gestita in modo straordinario.
Stasera si ritrovano faccia a faccia, in uno stadio che si annuncia stracolmo. Orfani dei bomber che li hanno affiancati con successo nelle ultime stagioni (Toni e Totti), schiacciati all'angolo da una classifica che impone a entrambi di cercare l'impresa: la Roma se perde viene scavalcata in vetta, la Fiorentina se non vince dovrà ridimensionare i sogni di gloria che per ora si sforza di tenere sottotraccia.
Un filo misterioso, s'è detto, lega le due squadre chiamate oggi a un faccia-a-faccia per tanti versi spietato, i viola esaltati dalla prospettiva-soprasso, i giallorossi smaniosi di cancellare la beffa juventina. Senza pescare troppo nel passato, Fiorentina-Roma è la sfida del rocambolesco spareggio-Uefa del 1989, ultimo gol in carriera di Roberto Pruzzo, infilato ahinoi nella porta giallorossa.
È la partita del leggendario "Siamo tutti parrucchieri" del 9 aprile 2001, del grottesco posticipo imposto per ragioni di ordine pubblico, giustamente salutato dal sarcasmo tifoso: finì 3-1 per i viola, ricordiamo con amarezza, allora guidati da Roberto Mancini. Una batosta terribile. Ma, si sa, la Roma di Gabriel Batistuta strappato da Sensi a suon di miliardi proprio al vecchio patròn Cecchi Gori e quel giorno rinnegato dai suoi ex adoratori, di lì a due mesi avrebbe vinto il suo terzo scudetto.
E ancora: Fiorentina-Roma è stato anche il crocevia della rinascita, la partita che in coppa Italia - era il 16 marzo del 2005 - avviò in qualche modo la rinascita, sulle ceneri del dopo-Capello. Si vinse ai rigori, con la Roma ridotta in nove da due espulsioni nei supplementari (Ferrari e De Rossi), in cima a una roulette russa da mozzare il fiato. C'era Bruno Conti in panchina, quel pomeriggio di due anni e mezzo fa. E Curci in porta. E Cassano in campo, con le sue bizze. E Scurto, capace di realizzare il rigore decisivo, dopo il pesantissimo errore del barese. La Roma agguantò le semifinali di coppa Italia, in mezzo a quell'annata maledetta. Firenze fischiò i giallorossi che abbracciavano Conti a centrocampo, mentre Cassano infilava cupo la porta degli spogliatoi. Consolatevi con la coppa, ci gridavano, tanto finirete in B. E invece, di lì a poco, la Roma si salvò due volte: andando a vincere a Bergamo alla penultima di campionato (gol di Cassano) e scegliendo Spalletti, incontrato e battuto nelle semifinali della coppa poi lasciata all'Inter, come uomo della ricostruzione.
Stasera ci risiamo.
Lo stadio è sempre quello, il clima inospitale pure. A Firenze non siamo mai piaciuti. Meno che mai dopo Calciopoli.
Con un'interpretazione di dietrologia degna di un intervento psichiatrico, ci accusano di avergli strappato la partecipazione alla Champions League di due anni fa. Più con Della Valle, che come hanno dimostrato valanghe di intercettazioni finì a testa in giù nel pozzo del Moggi-gate, ce l'hanno con la Roma, promossa al secondo posto del campionato ridisegnato dalla retrocessione della Juve e dalle penalizzazioni di altri club, quello viola in testa.
Più che negli errori propri, credono in complotti filo-giallorossi che chissà mai avrebbe ordito.
Difficile leggere l'anima tifosa, facile prevedere un'altra giornata di quelle da raccontare ai nipotini.
Speriamo ancora una volta col sorriso sulle labbra".

martedì 25 settembre 2007

MALEDETTA PRIMAVERA



Tra l'altro proprio ieri siamo entrati in autunno...

Ora, Mike Bongiorno è quello che è, una mummia potrebbe dire qualcuno, un pò attempato direbbe qualcun altro, una cariatide aggiungerebbe un altro ancora e forse alla fine saremmo tutti d'accordo nel dire che si parla comunque di una vera e propria istituzione.

Chiamato a condurre le serate di Miss Italia (si potrebbe poi aprire un dibattito sulla valenza di simili serate ma non è il mio compito) sceglie di avere come partner Loretta Goggi che francamente io credevo passata a miglior vita o avviata sulla strada di una meritata pensione, invece scopro avere 56 anni, devo dedurre che invecchio solo io.

Invece di stappare champagne e ballare fino a mattina la nostra amica Loretta ti pianta una scena degna della migliore attrice hollywoodiana o di una Valeria Marini innervosita. Accusa platealmente Mike di averla fatta entrare in diretta dopo 20 minuti e con una voce tremante dall'isteria spara ai quattro venti "Me ne vado, me ne vado" e mentre guadagna l'uscita mormora "Ma stiamo scherzando?".

Il povero Mike il cui colorito bianco fa pendant con lo smoking del medesimo colore rimane interdetto senza saper fare e aiutato dalla intraprendente miss Italia in carica Claudia Andreatti continua la conduzione fino al ritorno in scena della figliol prodiga Loretta che senza scusarsi riprende ancora Bongiorno e canta un pezzo con le solite imitazioni che non hanno mai fatto ridere nessuno (stavolta imita Milva, BASTA!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!).

Che dire? Mamma mia che amarezza... Speriamo che sia l'ultima volta che si abbia avuto la possibilità di vedere la Goggi che sono anni che circola tra tv e teatro senza portare nulla di significativo nelle nostre vite.

Un consiglio Loretta? Divertiti in quanto come cantava Cindy Lauper nei ruggenti anni '80 Girls Just Wanna'have fun (se non la ricordi ci pensa la sempre attenta Youtube),

http://www.youtube.com/watch?v=XH3vvXi8k8M&mode=related&search=

P.s.: un caro saluto al mitico ed ingestibile Francis, ci vediamo al concerto di Liga?

giovedì 20 settembre 2007

DINAMICI...


E uno...
Il racconto ispirato di Tonino Cagnucci da "Il Romanista" di oggi:
"Simone Perrotta "a Reggina" era stato il peggiore in campo, ieri ha fatto il gol dopo i sette secondi e gli undici passaggi (contati) più belli della storia del calcio;
il Real Madrid, invece, pare che abbia richiesto Marco Cassetti al posto di Salgado e Sergio Ramos (offerta fatta in busta con dentro, sembra, addirittura Comotto):
nella Roma gli ultimi sono già i primi, quando giochi come in paradiso (pure fosse per qualche sprazzo come ieri ) è così.
Vangelo secondo Spalletti: quegli undici passaggi contati contano più dei quattordici con cui l'Olanda e Cruijff si presero il rigore a Monaco di Baviera dopo un minuto.
Dopo 33 anni (l'età giusta) s'è rivisto qualcosa di simile.
Stadio Olimpico di Roma, terra promessa: questa squadra non è più a venire, e questa Champions League non sarà solo un'avventura.
Gli ultimi, quelli dell'1-7, sono già i primi.
In Italia come in Europa: il Manchester è dietro, l'Inter perde contro Roberto Carlos in Asia, mentre Tonetto fa il cross perfetto.
Perfetto.
O quasi.
Se c'è una cosa, ma proprio una cosetta, che non va in quest'altra notte di Coppe e di Campioni (e gli esami non finiranno mai veramente) è il dato dei paganti: 31.508. Cose che una volta per la Roma erano da stadio di Valmontone («A Valmontone, giocate a Valmontone...») e che invece nel calcio moderno non sono nemmeno da buttare via, anzi se c'è una felice anomalia nel pallone del duemila (e sette) è la passione della gente romanista.
Chissà se tra quei trentamila e passa (grandissima la Curva Sud, come prima e più di prima, sempre piena) c'era anche il cretino che tirò dalla supermegatribunad'onoredeche tre anni fa a Frisk la monetina? D
ove sta adesso?
Lui boh, quello tontolone della Juve condannato, la Roma prima. Eccola l'importanza di questi 3 punti, di quest'altra vittoria senza macchia e senza paura (Doni non prende gol da quando si faceva la porta col gessetto sotto casa sua): la nemesi contro la Dinamo Kiev è perfetta, l'esorcismo di quella serata maledetta è compiuto.
I tre anni che sono passati, sono passati tutti ieri, in un pugno che si apre come quegli undici passaggi contati (o erano 28?) della fantastica super-fantastica ragnatela punk romanista (è stata rete appena s'è dipanata).
Non può essere un caso mai che ieri, a parte Perrotta (gol di testa e assist con la testa), De Rossi (De Rossi è più o meno sempre il concetto stesso di paradiso), Totti (il messia tout court) Tonetto-Carlos (date a Roberto Mancini il fazzoletto che s'è persa Desdemona col Cassio) Juan (One) il migliore sia stato Philippe Mexes. A un certo punto sembrava dovesse uscire lui, quando era già la fine, e invece s'è rivolto alla panchina, ha fatto segno di sostituire qualcun altro: questa partita voleva giocarsela tutta, era una cosa che gli era rimasta, come dire... sospesa.
Il discorso interrotto della Coppa dei Campioni nell'incubo del Teatro dei Sogni dell'Old Trafford, la Roma l'ha ripreso nel migliore dei modi e dei mondi possibili: è stata la centesima vittoria in Europa della nostra storia, e Totti ha segnato quasi il doppio con questa maglia storica: quello di ieri è stato il 190.
Numeri tondi, perfetti e anche più grandi, se uno scopre che la Dinamo Kiev veniva da sette vittorie di fila, che, come un vecchio ritornello, gli ucraini erano-sono avanti nella preparazione, che questa squadra solo adesso sta cominciando a giocare ogni tre giorni, che Mancini (Amantino) era appena al suo esordio, che anche Ferrari è tornato, che in panchina c'era gente che ha vinto da sola questa coppa, e che fra quattro giorni, anzi già tre, da queste parti arriva la Juventus.
Ecco, adesso arriva la Juventus e qui nessuno ha più paura. Perché non chiamatelo big match quest'incontro con la neopromossa, perché nel calcio è possibile che gli ultimi diventino i primi anche perché quelli che arrivavano sempre primi sono arrivati già ultimi.
Anzi, retrocessi.
Anche quello è stato un passaggio in paradiso.
Un undici più uno.

lunedì 17 settembre 2007

I TRENI DI REGGIO CALABRIA


Non starò qui a magnificare le sorti magnifiche e progressive dell'As Roma dopo 3 giornate.
Non starò qui a fare stupidi confronti tra un leggendario Juan ed un Chivu con la spalla lussata nelle brume di Appiano Gentile.
Volevo solo dire una parola sul comportamento incivile della gente di Reggio Calabria.
Rigore netto negato a July, silenzio, espulsione dopo un fallo criminoso di Valdez, proteste, e fin qui siamo nella normalità. Ma di fronte ad una doppia simulazione dell'illustre carneade Ceravolo comincia il finimondo suggellato dal raddoppio del Capitano.
Partita sospesa, lancio di bottigliette e di seggiolini in campo, insulti e spintoni a Tempestilli e ai giornalisti delle radio private come Zampa e Paglia che avevano l'unico torto di star lì a lavorare. Il presidente Foti, squalificato lui e la squadra per i fatti di Calciopoli, in piedi sulla balaustra, novelllo Duce, ad arringare la folla.
Che pena.
Che squallore.
Che tristezza.
Pensare che Reggio Calabria ha problemi ben più gravi ma il popolo bue non sa far altro che arrabbiarsi per una partita di calcio. Lo stesso popolo bue che quando si vede fare torti dagli squadroni del Nord fa pippa e accoglie i dirigenti delle suddette con inchini e moine pur di guadagnare un pippone, uno scarto delle "grandi" in prestito.
Ma la colpa è anche della stampa, dei teatrini televisivi (vedere la crisi isterica di Sconcerti contro Spalletti su Sky) che hanno tirato su un ritratto non positivo della Roma, del Capitano e del resto, dando la stura a comportamenti simili che chi segue la Roma sa che sono la norma su quasi tutti i campi italiani.
Comunque, dammi i tre punti e non chiedermi niente...