venerdì 28 novembre 2008

GENOVA HA I GIORNI TUTTI UGUALI



Da "La Repubblica" di oggi, scrive Giuseppe D'Avanzo:

"L'asimmetria è manifesta.

Se partecipo a una manifestazione di piazza e pochi o molti violenti scatenano una guerriglia urbana, anch'io, che pacificamente ho aderito all'iniziativa, sono responsabile per la polizia di quella guerriglia.

Se, al contrario, ho addosso una divisa di poliziotto, il criterio che stringe in un solo nodo, con le stesse responsabilità, e i pacifici e i violenti non vale più.

Anche se sono in servizio in una caserma dove si torturano gli arrestati, anche se sono nella stessa stanza a pochi metri da quel castigo ingiusto, non mi può essere attribuita la responsabilità dei trattamenti inumani inflitti da altri.

No, occorre che ogni gesto degradante (naturalmente provato) abbia un suo responsabile diretto (naturalmente identificato in modo inequivocabile).

Una fortunata coincidenza ci mette sotto gli occhi, nelle stesse ore, gli esiti del nuovo "diritto diseguale".

A Roma il procuratore generale della Cassazione definisce "deviata" una cultura poliziesca che, identificando una persona che partecipa a una manifestazione, le attribuisce "tutti i reati commessi durante la manifestazione" (è accaduto l'11 marzo 2006 a Milano, in Corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista).

A Genova diventano pubbliche le motivazioni per le torture della caserma di polizia di Bolzaneto durante i giorni del G8, tra il 20 e 22 luglio 2001. E si legge che - non c'è dubbio - le violenze, le umiliazioni consumate in quella caserma e "pienamente provate avrebbero potuto ricomprendersi nella nozione di "tortura" delle convenzioni internazionali". Ma in Italia quel reato non c'è e allora bisogna accontentarsi di descrivere quelle prepotenze come "condotte inumane e degradanti".

Sono comportamenti "che hanno tradito il giuramento di fedeltà alle leggi della Repubblica italiana e alla Carta Costituzionale, inferto un vulnus gravissimo, oltre a coloro che ne sono stati vittime, anche alla dignità delle forze della polizia di Stato e della polizia penitenziaria e alla fiducia della quale detti Corpi devono godere nella comunità dei cittadini". Epperò, dall'accertamento delle condotte vessatorie "non discende automaticamente che, di quelle condotte, debbano necessariamente rispondere tutti gli imputati". Ne risponderanno individualmente soltanto i responsabili diretti.

"Purtroppo la maggior parte di coloro che si sono resi direttamente responsabili delle vessazioni risultate provate in dibattimento è rimasta ignota. Scrivono i giudici: il limite di questo processo è rappresentato dal fatto che quei nomi, quelle facce, gli aguzzini non sono saltati fuori "per difficoltà oggettive, non ultima delle quali la scarsa collaborazione delle Forze di Polizia, originata, forse, da un malinteso "spirito di corpo"".


Non c'è dubbio che il procuratore generale della Cassazione e i giudici di Genova abbiano ragione: la responsabilità penale deve essere personale. C'è però una differenza non trascurabile: da un poliziotto ci si attende una leale collaborazione nell'accertamento dei fatti, non "spirito di corpo", non complicità, non omertà. Quei poliziotti, che hanno violato la Costituzione nelle vie di Genova, alla Diaz, a Bolzaneto avrebbero dovuto essere trascinati dinanzi al giudice dai loro stessi commilitoni.

Al contrario, la storia dei processi di Genova è una parabola sempre uguale di connivenze, silenzi, reticenze, favoreggiamento, fughe dal processo come quella promossa proprio in questi giorni da un questore accusato di falsa testimonianza con l'allora capo della polizia Gianni De Gennaro.

Se la polizia vuole finalmente chiudere con la verità una pagina di vergogna della sua storia, come ha promesso di fare il capo della polizia Antonio Manganelli, non ha che da rendere concreto il suo impegno accompagnandolo con l'agenda ragionevolmente proposta dal "Comitato verità e giustizia per Genova". Scuse formali dei vertici dello Stato alle vittime degli abusi e a tutti i cittadini; collocazione immediata dei condannati a ruoli che non comportino una relazione diretta con i cittadini; massima collaborazione con la magistratura per le inchieste ancora aperte.

Da parte sua, il Parlamento discuta al più presto proposte di legge di "riforma" delle forze di polizia: l'obbligo per gli agenti in servizio di ordine pubblico di indossare codici d'identificazione; l'istituzione di un organismo indipendente cui denunciare eventuali abusi delle forze di sicurezza. Sono strumenti diffusi in molti paesi europei.

Si può concordare che "l'esperienza di Genova dimostra che il nostro paese ne ha bisogno".

giovedì 27 novembre 2008

FATALITA'...


Così ha detto il presidente del consiglio a proposito del crollo del liceo "Darwin" di Rivoli nel quale ha trovato la morte Vito, il giovane diciassettenne.
Fatalità, nel 2008 per una fatalità un controsoffitto può cadere all'inizio della terza ora su un gruppo di adolescenti liceali.
Si parla spesso di indicibilità delle tragedie e questa forse è una di quelle occasioni. Il pensare che un ragazzo, all'alba della sua vita, non ancora uomo debba vedere finir tutto per una situazione simile mi fa veramente accaponare la pelle.
Per molti aspetti.
Non ultimo quello di osservare i compagni di classe di Vito messi davanti, ancora giovani, alla tragedia della morte, alla scomparsa di un ragazzo con il quale fino a pochi minuti prima si scherzava e si rideva.
Le immagini del funerale, la maglietta di Legrottaglie sulla bara e la lettera scritta dalla sorella e letta dal pulpito rappresentano un pugno nello stomaco che veramente ti leva il fiato.
Così come la più grande tragedia: quando i genitori sopravvivono a un figlio.
E di fronte a questo ogni parola appare inutile.

martedì 18 novembre 2008

ASPETTA E SPEER


Dal blog di Gabriele Romagnoli, notista de "La Repubblica":
"A Parigi incontro S.
E' di passaggio: nato a Barcellona, vive a New York.
Poiché sotto il portone di casa mia c'è una targa alla memoria di Raoul Nadet, ucciso a Mathausen, prima di congedarmi la indica e dice: "Anche mio padre è morto in un lager".
Restiamo lì, nella sera d'autunno.
Lui aggiunge: "Mio zio era con lui, ma si è salvato. Dopo la guerra è tornato a Berlino e ha aperto un ristorante. Era un grande chef. Ha avuto una stella della guida Michelin. Ci veniva tutta la gente che contava in città.
Una sera l'aiuto cuoco gli ha chiesto se lo sapeva che un cliente fisso era Albert Speer, l'architetto poi ministro di Hitler. Mio zio l'ha guardato incredulo. Quello ha detto: è di là anche stasera, è l'unico che cena da solo".
"Mio zio controllò dall'oblò della cucina e lo vide.
Stava mangiando il suo dessert più riuscito.
Si lavò le mani e andò in sala.
Si sedette davanti a Speer.
Quello alzò lo sguardo. Era evidente che il dolce gli stava piacendo.
Sorrise.
Mio zio sollevò appena la manica e lasciò vedere i numeri tatuati sul braccio.
Speer spense il sorriso, guardò il dessert con una diversa espressione.
Mio zio lo rassicurò: non era avvelenato".
Poi?
"Poi parlarono per due ore, fino alla chiusura del ristorante. Mio zio voleva solo sapere, capire.
Non disse mai che cosa seppe o capì. Fece domande, ascoltò risposte.
Alla fine Speer pagò il conto, si alzò e se ne andò.
Mio zio tornò in cucina.
Speer non tornò mai più, mio zio vendette il ristorante.
Gli è sopravvissuto.
Ora vive nel Sud della Francia ed è un uomo passabilmente sereno".

lunedì 10 novembre 2008

GENOVA, E' UN'IDEA COME UN'ALTRA


Così scrive Giuseppe D'Avanzo su "La Repubblica" di oggi:


"Uno Stato che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico.

Una polizia che usa la forza non per impedire reati, ma per commetterne, non può essere considerata "forza dell'ordine".

Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici".

Valerio Onida, giudice emerito della Corte Costituzionale.

Sono parole che bisogna tenere a mente ora che il processo per le violenze della polizia nella scuola "Diaz", durante i giorni del G8 di Genova, è prossimo alla sentenza.

Il 21 luglio del 2001 è il giorno più tragico del G8 di Genova. È morto Carlo Giuliani in piazza Alimonda in una città distrutta dai black bloc che riescono inspiegabilmente a colpire indisturbati e a dileguarsi senza patemi. Per tutto il giorno, Genova è insanguinata dai pestaggi della polizia, dei carabinieri, dei "gruppi scelti" della guardia di finanza contro cittadini inermi, donne, ragazzi, anche anziani, spesso con le braccia alzate verso il cielo e sulla bocca un sorriso.

Ora, più o meno, è mezzanotte.

Mark Covell, 33 anni, inglese, giornalista di Indymedia.uk, ozia davanti al cancello della scuola Diaz, diventato un dormitorio dopo che i campeggi sono stati abbandonati per la pioggia.

Covell si accorge che la polizia sta "chiudendo" la strada. Avverte subito il pericolo.

Estrae l'accredito stampa, lo mostra, lo agita. I poliziotti, che lo raggiungono per primi (sono della Celere, del VII nucleo antisommossa del Reparto Mobile di Roma), lo colpiscono con i "tonfa" o "telescopic baton", più che un manganello un'arma tradizionale delle arti marziali: rigido e non di caucciù, a forma di croce: "può uccidere", se ne vanta chi lo usa. Colpiscono Mark senza motivo. Come, senza ragione, un altro poliziotto con lo scudo lo schiaccia subito dopo contro il cancello mentre un altro, come un indemoniato, lo picchia alle costole. Gli gridano in inglese: "You are black bloc, we kill black bloc" ("Tu sei un black, noi ti uccidiamo").

Covell cade finalmente a terra.

E' semisvenuto, in posizione fetale. Potrebbe bastare anche se fosse un incubo, ma per Mark il calvario non è ancora finito. Tutti i "celerini" che corrono verso la scuola lo colpiscono a terra con calci (il pestaggio di Covell è ripreso da una videocamera). Covell rimarrà, esanime, circondato dall'indifferenza, in quell'angolo di via Cesare Battisti, al quartiere di Albaro, per oltre venti minuti. Ha una grave emorragia interna, un polmone perforato, il polso spezzato, otto fratture alle costole, dieci denti in meno. Quando si sveglia in ospedale, viene arrestato per resistenza aggravata a pubblico ufficiale, concorso in detenzione di arma da guerra e associazione a delinquere. (E' ancora aperta l'indagine per individuare i poliziotti che lo hanno quasi ucciso. L'accusa: tentato omicidio).

Distruggere.

Annientare.

E' con questo obiettivo che, dopo aver abbattuto con un blindato Magnum il cancello, le prime tre squadre del Reparto Mobile di Roma (trenta uomini) invadono, a testuggine, il pianoterra della scuola.
Arnaldo Cestaro, "un vecchietto", è sulla destra dell'ingresso.
Viene travolto.
Lo gettano contro il muro.
Lo picchiano con i "tonfa".
Gli spezzano un braccio e una gamba.

Ora ci sono urla e baccano. Nella palestra, ai piani superiori ragazzi e ragazze - anche chi si è già infilato nel sacco al pelo per dormire - comprendono che cosa sta accadendo. Tutti raccolgono le loro cose, il bagaglio leggero che si portano dietro da giorni.

Si sistemano con le spalle al muro; chi in ginocchio; chi in piedi; tutti con le braccia alzate in segno di resa; chi ha voglia di un'ultima "provocazione" mostra al più indice e medio a V. Daniel Mc Quillan, quando vede le divise, si alza in piedi e dice: "Noi siamo pacifici, niente violenza".

"Come se fossero un branco di cani impazziti, sono su di lui in un istante e lo colpiscono, lo colpiscono, lo colpiscono?", dicono i testimoni.

La furia dei celerini si scatena contro chiunque e dovunque, irragionevolmente, con furore (si vede uno che mena colpi con una specie di mazza da baseball). Melanie Jonach racconterà di essere svenuta subito al primo colpo che la raggiunge alla testa. Gli altri, che vedono la bastonatura inflittale, ricordano i suoi occhi aperti ma incrociati, le contrazioni spastiche del corpo. Anche in queste condizioni, continuano a picchiarla e a prenderla a calci.

Un ultimo calcio sbatte la sua testa contro un armadio: ora è "aperta" come un melone. Il comandante del VII nucleo, a quel punto, grida "Basta!". Raggiunge la ragazza. "La tocca con la punta dello stivale. Melanie non dà segni di vita e quello ordina che venga chiamata un'autoambulanza". (Melanie Jonach ci arriverà in codice rosso con una frattura cranica nella regione temporale sinistra). Nicola Doherty ancora piange in aula mentre racconta: "Hanno cominciato a picchiarci immediatamente. C'era gente che piangeva e implorava i poliziotti di fermarsi. Anch'io piangevo e chiedevo che la smettessero. Uno mi è venuto vicino e con fare dolce mi ha detto "Poverina!" e mi ha colpito ancora. Sembrava che ci odiassero. Ho visto un poliziotto con un coltello in mano, bloccava le ragazze, i ragazzi e tagliava una ciocca di capelli con il coltello".

Voleva il suo personale trofeo di guerra. Altri continuano a gridare, dopo aver picchiato duro: "Dì, che sei una merda". Mentre colpiscono gridano: "Frocio!", "Comunista!", "Volevate scherzare con la polizia?", "Nessuno sa che siamo qui e ora vi ammazziamo tutti!".

Lena Zulkhe, colpita alle spalle e alla testa, cade subito. Le danno calci alla schiena, alle gambe, tra le gambe. "Mentre picchiavano, ho avuto la sensazione che si divertissero". La trascinano per le scale afferrandola per i capelli e tenendola a faccia in giù. Continuano a picchiarla mentre cade. La rovesciano quasi di peso verso il pianoterra. "Non vedevo niente, soltanto macchie nere. Credo di essere per un attimo svenuta. Ricordo soltanto - ma quanto tempo era passato? - che sono stata gettata su altre due persone, non si sono mossi e io gli ho chiesto se erano vivi. Non hanno risposto, sono stata sdraiata sopra di loro e non riuscivo a muovermi e mi sono accorta che avevo sangue sulla faccia, il braccio destro era inclinato e non riuscivo a muoverlo mentre il sinistro si muoveva ma non ero più in grado di controllarlo. Avevo tantissima paura e pensavo che sicuramente mi avrebbero ammazzata".

Dei 93 ospiti della "Diaz" arrestati, 82 sono feriti, 63 ricoverati ospedale (tre, le prognosi riservate), 20 subiscono fratture ossee (alle mani e alle costole soprattutto, e poi alla mandibola, agli zigomi, al setto nasale, al cranio).

Che cosa ha provocato questa violenza rabbiosa e omicida?

Come è stata possibile pensarla, organizzarla, realizzarla.

Il 22 luglio, il portavoce del capo della polizia convoca una conferenza stampa e distribuisce un breve comunicato che vale la pena di ricordare per intero: "Anche a seguito di violenze commesse contro pattuglie della Polizia di Stato nella serata di ieri in via Cesare Battisti, si è deciso, previa informazione all'autorità giudiziaria, di procedere a perquisizione della scuola Diaz che ospitava numerosi giovani tra i quali quelli che avevano bersagliato le pattuglie con lancio di bottiglie e pietre. Nella scuola Diaz sono stati trovati 92 giovani, in gran parte di nazionalità straniera, dei quali 61 con evidenti e pregresse contusioni e ferite. In vari locali dello stabile sono stati sequestrati armi, oggetti da offesa ed altro materiale che ricollegano il gruppo dei giovani in questione ai disordini e alle violenze scatenate dai Black Bloc a Genova nei giorni 20 e 21. Tutti i 92 giovani sono stati tratti in arresto per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio e detenzione di bottiglie molotov. All'atto dell'irruzione uno degli occupanti ha colpito con un coltello un agente di Polizia che non ha riportato lesioni perché protetto da un corpetto. Tutti i feriti sono stati condotti per le cure in ospedali cittadini".

Il portavoce mostra anche le due molotov che sarebbero state trovate nell'ingresso della scuola, "nella disponibilità degli occupanti".

Il processo di Genova ha dimostrato ragionevolmente (e spesso con la qualità della certezza) che nessuna delle circostanze descritte dal portavoce del capo della polizia (capo della polizia era all'epoca Gianni De Gennaro) corrisponde al vero.

Quelle accuse sono false, quelle ragioni sono inventate di sana pianta.

Si dice che l'assalto (la "perquisizione") fu organizzato dopo che un corteo di auto e blindati della polizia era stato, poco prima della mezzanotte, assalito in via Cesare Battisti con pietre, bottiglie e bastoni.

Il processo ha dimostrato che non c'è stata nessuna pattuglia aggredita.

Si dice che gli ospiti della Diaz fossero già feriti, quindi coinvolti negli scontri in città. Nessuno dei 93 arrestati era ferito prima di essere bastonato dai "celerini". Poliziotti, comandanti, dirigenti hanno riferito che, mentre entravano nella scuola, c'è stata contro di loro una sassaiola e addirittura il lancio di un maglio spaccapietre. I filmati hanno dimostrato che non fu lanciata alcun sasso e nessun maglio. Il comandante del Reparto Mobile di Roma ha scritto in un verbale che ci fu una vigorosa resistenza da parte di "alcuni degli occupanti, armati di spranghe, bastoni e quant'altro". Assicura che nella scuola (entra tra i primi) sono stati "abbandonati a terra, numerosi e vari attrezzi atti ad offendere, tipo bastoni, catene e anche un grosso maglio".

Nella scuola non c'è stata alcuna colluttazione, nessuna resistenza, soltanto un pestaggio.

Nessuno degli occupanti ha tentato di uccidere con una coltellata il poliziotto Massimo Nucera.

Due perizie dei carabinieri del Ris hanno smentito che lo sbrego nel suo corpetto possa essere il frutto di una coltellata.

Nella scuola non c'erano molotov.

Come ha testimoniato il vicequestore che le ha sequestrate, quelle due molotov furono ritrovate da lui non nella scuola la notte del 22 luglio, ma sul lungomare di Corso Italia nel pomeriggio del giorno precedente.

La prova falsa, manipolata, è stata inspiegabilmente distrutta, durante il processo, nella questura di Genova.

In settimana il tribunale deciderà delle responsabilità personali dei 29 imputati (poliziotti, dirigenti, comandanti, alti funzionari della polizia di Stato) accusati di falso ideologico, abuso di ufficio, arresto illegale e calunnia.

Quel che qui conta dire è che la responsabilità non penale, ma tecnico-politica di chi, impotente a fronteggiare i black bloc, si è abbandonato (per vendetta? per frustrazione? con quali ordini e di chi?) a pestaggi ingiustificati e indiscriminati, non può e non deve essere liquidata da questa sentenza.

Centinaia di agenti, sottufficiali, ufficiali, dirigenti di polizia, funzionari del Dipartimento di pubblica sicurezza hanno mentito durante le indagini e al processo.

E chi non ha mentito, ha negato, taciuto o dissimulato quel che ha visto e saputo.

Dell'assalto alla "Diaz" non inquieta soltanto il massacro di 93 cittadini inermi diventati in una notte "criminali" a cui non si riconosce alcuna garanzia e diritto.

Quel che angoscia è anche questo silenzio arrogante, l'omertà indecorosa che manipola prove;

costruisce a tavolino colpevoli;

nasconde le responsabilità;

sfida, senza alcuna lealtà istituzionale, il potere destinato ad accertare i fatti.

Le apprensioni di sette anni raddoppiano ora che, decreto dopo decreto, si fa avanti un "diritto di polizia".

Il Paese ha bisogno di sapere se il giuramento alla Costituzione delle forze dell'ordine non sia una impudente finzione.


Perché quel che è accaduto a Mark Covell e ai suoi 92 occasionali compagni di sventura rende chiaro, più di qualsiasi riflessione, come uno Stato che si presenta nelle vesti di sbirro e carnefice fa assai presto a diventare uno Stato criminale quando il dissidente, il non conforme, l'altro diventa un "nemico" da annientare".

domenica 2 novembre 2008

DETTO TRA NOI


Così scrive Francesco Bono su "Il Venerdi di Repubblica" a proposito di Ghost che Canale 5 trasmetterà (ma dai...) stasera alle 21.30:
"Vi segnaliamo la scena con Sam e Molly che plasmano dell'argilla, per farci un vaso. Fra le mani di Demi Moore l'argilla suggerisce qualcos'altro!".

mercoledì 22 ottobre 2008

OKKUPATO



Come si usa dire al commissariato o dai carabinieri, letto e sottoscritto.

Da "La Repubblica" di oggi, l'articolo di Carlo Bonini:

"Ora che è stata accesa la miccia, forse diventerà più difficile capire e distinguere.

E, magari, anche ricordare. Perché persino più che a Milano, Torino, Padova - laboratori storici dell'antagonismo - a Roma, i centri sociali sono stati e rimangono un pezzo significativo della sua storia culturale e politica.

A sinistra, come a destra.

Lo dicono i numeri (almeno una cinquantina le sigle).

Lo dice la geografia della loro distribuzione sul territorio.

Dalla periferia occidentale della città (Portuense, Laurentino, Boccea, Trullo), a quella orientale (Monte Sacro, Nomentano, Portonaccio).

Da Nord (Primavalle, Casalotti), a sud (Cinecittà, Tuscolano, Prenestino, Casilino).

Fino al cuore della città (Colle Oppio, Celio, Esquilino, san Lorenzo, Testaccio, Prati).

Lo dice soprattutto una storia cominciata quattordici anni fa quando i "centri" li contavi sulle dita di due mani e si chiamavano "Brancaleone", "Rialto", "Villaggio Globale". Era il 1994 e un giovanissimo Francesco Rutelli, neosindaco, firmava la delibera di "assegnazione degli spazi sociali".

A Roma, l'antagonismo, nelle sue forme politiche e culturali, diventava un luogo del paesaggio riconosciuto.

La "sinistra" e la "destra" sociali, eredi di una tradizione politica che si era storicamente formata non nella battaglia nelle fabbriche ma in quella per il diritto alla casa e dunque nelle occupazioni di immobili dismessi o semplicemente figli dell'abusivismo edilizio, dichiaravano la loro rinuncia a un progetto di conflitto violento e permanente.

In cambio, ne ottenevano tolleranza amministrativa per gli "spazi occupati di autogestione".

Luoghi di separazione in cui coltivare l'idea di "un altro mondo possibile". I neri di "Casa Pound" e "Foro 753" potevano lavorare affacciati sul Colosseo, mentre i rossi di "Brancaleone", "Rialto", "Villaggio Globale" diventavano da laboratorio teatrale, visivo, musicale "off-off", protagonisti della scena culturale partecipando ai bandi comunali per l'estate romana.


Accusata di "entrismo", di eccessiva contiguità con la politica istituzionale da molti centri del nord-est e del nord-ovest, l'esperienza romana, pur nelle sue differenze e diaspore interne, infilava un sentiero che non l'avrebbe mai ridotta o umiliata a "problema di ordine pubblico".

I "centri", con i loro concerti, le loro birrerie autogestite, i loro spazi di disobbedienza antiproibizionista, si moltiplicavano, costituendosi spesso come unici luoghi di aggregazione sul territorio. Ammortizzatori sociali, "sportelli unici" per immigrati.

I "centri" si facevano rete nei quartieri e "directory" on-line nell'offerta culturale della città. Come in un tamburino per cinema e teatri. Nuove occupazioni, dunque, e nuove sigle. "Astra" (Montesacro), "Esc atelier" (san Lorenzo), "Acrobax project" (all'ex cinodromo di viale Marconi). Solo per citarne alcune.

L'iconografia della birra e del "cannone", del cane da "punkabbestia", come ogni semplificazione, accarezzava solo la superficie di luoghi che, negli anni '90, nella dissoluzione dei partiti, erano rimasti i soli indirizzi riconoscibili della politica per due generazioni di liceali e universitari.

Non lo ignora la destra sociale di Storace e Bontempo.

Ne è consapevole Rifondazione Comunista.

Lo annusa "Forza Nuova" che apre un suo presidio in Prati.

Nunzio D'Erme è il primo consigliere comunale di Rifondazione espresso dai "Centri sociali". Scaricherà un camion di letame di fronte a Palazzo Grazioli, la residenza romana di Silvio Berlusconi, e perderà il treno per un seggio a Strasburgo. Ma la sua esperienza è il segno e in qualche modo l'approdo della via romana alla convivenza e al reciproco riconoscimento di mondi che parlano lingue diverse.

Dentro e fuori l'aula consiliare Giulio Cesare. E' il compromesso che consente a Veltroni sindaco di inaugurare le notti bianche mentre i centri espongono uno striscione che ricorda in Campidoglio "le notti bianche del precariato".

Di celebrare le iniziative per ricordare i Mattei, di intitolare una strada a Paolo Di Nella (attivista di destra ucciso a sprangate nel 1983), senza che questo incendi, al di là delle parole, l'area antagonista.

Di trovare un luogo ai neri di "Foro 753", costretti a lasciare il Celio per far posto a un asilo, in cambio di una mediazione continua con Enti Pubblici e privati che impedisca lo sgombero delle "occupazioni di sinistra".

I Centri, insomma, avrebbero continuato a parlare la loro lingua e non avrebbero abbandonato il cuore della loro battaglia politica.

Quella per l'emergenza degli alloggi.

Sullo scranno di D'Erme, nelle ultime elezioni comunali di aprile, sarebbe salito Andrea Alzetta, detto "Tarzan", di "Action".

A Monte Sacro si sarebbe tornato ad occupare.

Ieri, dopo 14 anni di assenza di conflitto di strada, lo sgombero dell'"Horus".

E le parole di un preoccupato prefetto di Roma, Carlo Mosca: "Non c'è nessun tipo di pianificazione. Si tratta di un provvedimento del magistrato e quindi siamo dovuti intervenire. In ogni caso, prima bisogna trovare delle soluzioni per sistemare tutte le persone che occupano".

Forse, la via romana all'antagonismo cominciata 14 anni fa non finirà nello spazio di un pomeriggio".

domenica 12 ottobre 2008

DIE ENDE


Solo due settimane fa aveva stravinto le elezioni, solo due settimane dopo la sua folgorante carriera politica ha trovato un ostacolo insormontabile in una curva bagnata.
Jorg Haider, l'uomo nero, il terrore dell'Europa benpensante ha smesso per sempre di far paura.
La scena politica austriaca non era stata più la stessa da quando l'aitante governatore della Carinzia aveva stravinto le elezioni del 2000 portando uno scossone inatteso nella cloroformizzata vita politica austriaca oramai anestetizzata da un cinquantennio di condominio al potere tra i socialdemocratici e i democristiani. Un successo, bissato dopo un periodo oscuro pochi giorni fa, ottenuto attraverso dichiarazioni poco interessate al politically correct: rivalutazione dell'occupazione nazista, immigrati come problema, lotta alla criminalità. Niente di particolarmente nuovo, un mix tra populismo, xenofobia, ecologia che va molto di moda e che sarebbe sbagliato etichettare semplicisticamente come politica di destra visto che non pochi elettori socialdemocratici della "cintura rossa" viennese non avrebbero fatto fatica a condividere.
Ma, c'era un ma e nemmeno dei più piccoli.
Haider era austriaco e il suo cognome iniziava per H. Come scrive oggi su "La Repubblica" Paolo Rumiz, tutto questo non poteva passare inosservato e nè lasciare indifferenti. Era la stessa Austria dei caffè, della Sacher, di Mozart, la vecchia Felix Austria austroungarica del vecchio Cecco Beppe che coltivava in sè una carica eversiva e affascinante al tempo stesso e che dal suo ventre profondo aveva prodotto un giovane imbianchino di nome Adolf Hitler.
Ancora una volta dal paesaggio di cartolina della Carinzia, al confine fra Italia e Slovenia, era arrivata un'ondata di novità che ci aveva portato a ripensare alle nostre certezze. La destra austriaca, forte di un grande risultato, dovrà capitalizzare questa messe di voti in una situazione quantomai difficile visto il probabile incarico a cancelliere per il leader socialdemocratico.
Ma forse nella notte fredda di Klagenfurt non è morto solo Haider ma il sogno di una ritorno alle radici, ad una purezza etnica che sembrano davvero fuori moda in un'Europa, in un mondo oramai globalizzato.

lunedì 6 ottobre 2008

NERO E NON SOLO


L'Italia si scopre razzista?
Così parrebbe ad osservare i diversi episodi che quasi quotidianamente la cronaca ci offre a proposito di situzioni, di violenze che vedono coinvolti extracomunitari. Non da oggi "l'altro" trova molte difficoltà nel nostro paese, dei muri che, spesso invisibili, impediscono una reale comprensione del mondo che ci sta attorno. Sarà per la crisi economica, per la paura di qualunque persona venga percepito come diverso (anche un semplice tifoso di una squadra avversaria) ma oramai gli episodi sono veramente tanti.
Il problema indubbiamente c'è ma la colpa maggiore spetta alla televisione, alla carta stampata che continuano a pompare una finta emergenza per nascondere le manchevolezze della classe politica, tutta. Non si può non sottolineare come un certo clima si basi anche su una sorta di "sciogliete le righe" data dalla presenza di una maggioranza politica che sullo sfruttamento delle debolezze e dei peggiori istinti ha vinto le elezioni.
Che governi allora ma che non sfrutti le forze dell'ordine (apolitiche e al servizio di tutti) per nascondere le proprie mancanze.
La voglia di sicurezza non può basarsi solo sull'ordine, l'integrazione e il rapporto con l'altro sono la base del nostro vivere sociale.
Che in questi giorni gli unici ad alzare la voce siano state la Chiesa e la comunità di Sant'Egidio la dice lungo su quanto questo paese sia sempre più alla deriva.

lunedì 22 settembre 2008

ITE MISSA EST?



Domenica sera, ore 19, chiesa parrocchiale di San Roberto Bellarmino.

Siamo in piazza Ungheria, luogo nodale dei Parioli e porta d'ingresso al quartiere. Dalla piazza si propagano le arterie che portano all'incantevole belvedere di piazza delle Muse ed allo zoo, passando per villa Taverna, residenza dell'ambasciatore statunitense a Roma.

La navata a sinistra è ancora vuota ma piano piano comincia a riempirsi di decine di giovani che, preso posto tra i banchi ed accompagnati dalle chitarre, cominciano ad intonare il canto d'ingresso nel momento stesso dell'entrata del sacerdote accompagnato dai ministranti.

Nulla di nuovo rispetto alle tante messe dei giovani che ogni domenica si possono ascoltare nelle parrocchie italiane ma vederla fa davvero uno strano effetto. Sono tempi nei quali è unanimente riconosciuto quanto le chiese italiane tendano a svuotarsi di fronte ad un aumento della scissione tra fede dichiarata e comportamenti personali e alla ricerca di diverse forme di spiritualità che portano a cercare dei succedanei. Siamo in un'epoca secolarizzata, i sociologi tendono a distinguere tra una secolarizzazione qualitativa (un'inesorabile perdita dell'importanza della religione nel discorso pubblico) ed una quantitativa (una diminuizione dei fedeli all'interno delle società moderne) tanto che per alcune frange della società si può addirittura parlare di scristianizzazione.

Eppure ad osservare quanto la chiesa sia normalmente piena in ogni ordine di posti ci si chiede quanto spesso la sociologia pecchi nel descrivere un mondo teorico scisso dalla realtà quotidiana.

Gran parte del merito sembra spetti a don Andrea, un giovane sacerdote che da qualche anno ha costituito un gruppo giovanile molto attivo che ha iniettato linfa all'interno del tronco della comunità parrocchiale e che svolge un gran numero di iniziative. La sua predica nella messa domenicale pone i fedeli davanti a tematiche e ad interrogativi non banali, non ci si trova di fronte a risposte preconcette ma ad una sorta di dialogo nel rispetto dei ruoli. L'esaltazione della novità e del messaggio rivoluzionario di Cristo, l'attenzione sulla pace, sul rispetto dell'altro e sulla fratellanza. L'uditorio è posto di fronte a suggerimenti letterari, al confronto con altre culture e tradizioni (citazioni di John Donne, Ernest Hemingway) o a brani di opere uomini di chiesa tra i più valenti (il cardinale Martini o don Tonino Bello) utilizzati allo scopo di spiegare gli avvenimenti che si svolgono nella nostra società.

E attorno questi giovani, felici e partecipi, che spesso la tv e la stampa dipingono come schiavi della società di massa, della generazione internet o di un mondo oramai sperso nel relativismo culturale ed etico. Giovani che proprio quest'anno hanno avuto il privilegio di visitare i luoghi santi di Israele e di confrontarsi con i fratelli maggiori, quegli ebrei che il concilio Vaticano II riabilitò dalla accusa di deicidio che per secoli aveva impedito un dialogo e confronto con una delle tre grandi religioni monoteiste.

E in un periodo nel quale la religione spesso viene brandita come una clava a giustificazione di mere ideologie che di religioso hanno ben poco è da rilevare l'importanza di iniziative che mirino al confronto, all'ascolto ed al rifiuto di ogni verità precostituita. E non è forse un caso che il risultato sia una fila interminabile al momento dell'Eucaristia, giovani, anziani, adulti, bambini assieme a cantare e a farsi parte sempre più di una comunità, serena e gioiosa.

Comunità che rappresenta un'occasione non banale di incontro e condivisione rispetto alle immagini stereotipate e alle polemiche sul nuovo protagonismo della Chiesa. Un protagonismo, sul quale si possono avere idee ed opinioni diverse, ma che spesso diviene oggetto di scontro a causa della strumentalizzazione di carattere politico da parte dei due principali schieramenti che spesso, poveri di proposte, speculano sulle posizioni della Chiesa sperando di cavarne risultati positivi dal punto di vista elettorale. Schieramenti che operano una reductio ad unum della Chiesa dimenticando che all'interno della comunità cattolica esistono diverse sensibilità e stati d'animo che non possono essere automatiacmente traslati sul piano elettorale. Il risultato del referendum sulla procreazione assistita di qualche tempo fa, di fronte come abbiamo precedentemente accennato ad una calo della pratica religiosa, sta lì ad indicarlo.

L'assistere alla messa a San Roberto, assieme alla compagnia di un così valido gruppo giovanile, può essere un momento di riflessione sulla nostra società e su quanto avvertiva poco più di 60 anni un filosofo laico come Benedetto Croce:"Perchè non possiamo non dirci cristiani".

venerdì 19 settembre 2008

OVERBOOKING


Il momento attuale è ben raccontato da Ilvo Diamanti su "La Repubblica" di oggi. Perchè aggiungere parole a chi di mestiere sa raccontare così bene la società:
"E' un po' sorprendente che la delusione, tanto diffusa nella società, non produca sfiducia nel governo e, in primo luogo, nel premier.
Eppure in passato aveva sempre funzionato l'equazione: più delusione meno consenso a chi governa.
Tanto che la delusione era divenuta una fra le più efficaci tecniche di opposizione.
Complici i media, che ne hanno fatto un genere di successo, miscelando la delusione con altri sentimenti di largo uso, nel linguaggio comune. La paura, l'incertezza, l'inquietudine, l'insicurezza.
Così, per restare a questo decennio, gli italiani delusi hanno punito, dapprima, Berlusconi e il centrodestra. Il quale ha perduto tutte le elezioni intermedie, dopo il 2001: comunali, regionali, europee. Tutte. Per riprendersi - e quasi a rivincere - nel 2006, dopo una breve e intensa campagna elettorale tutta protesa a deviare il corso della delusione verso Prodi e il centrosinistra. Suscitando sfiducia preventiva nei loro confronti. Come avrebbero potuto, gli elettori, soprattutto i più moderati, fidarsi dei comunisti, neo o ex non importa, e dei loro alleati?
Quelli che avrebbero aumentato le tasse, anzitutto sulla loro casa; quelli che avrebbero aperto le porte ai delinquenti e agli immigrati: cioè, lo stesso; quelli che avrebbero allargato ancora lo spazio dello stato e ridotto quello del privato. Non ne avevano ... "paura"?
Argomenti riproposti, con successo, nella breve parentesi del secondo governo Prodi. Neppure due anni di navigazione faticosa e affaticata, poi il naufragio. Nelle acque torbide della delusione. A poco è servito il tentativo di Veltroni di voltar pagina, cancellare il passato. Un nuovo partito, una nuova strategia, da soli da soli! Opposizione senza pregiudizio e senza antagonismo, Berlusconi: avversario mai più nemico. Troppa la delusione retrospettiva. Al punto da rendere inutile e controproducente il tentativo di rimuovere il passato - insieme a Prodi. Da ciò la vittoria schiacciante di Berlusconi, sopravvissuto alla delusione, emerso da un mare di delusione.
E ora là, luminoso faro nella nebbia della delusione. Un sentimento che, sei mesi dopo il voto, non si è dissolto, ma, al contrario, continua a crescere. Una foschia grigia e densa. D'altronde, non ne va bene una. La crisi economica e finanziaria deborda. I prezzi sono fuori controllo. La paura della criminalità non flette. La fiducia nel futuro... da che parte sta il futuro? E poi, nessuna promessa mantenuta. Le tasse? Non caleranno. Alitalia? Affonda. Neanche nel calcio le cose vanno bene. La Nazionale ha perso gli europei. (Altro che ai mondiali del 2006, quando c'era Prodi ...).
Eppure, il rapporto fra il governo e il paese; fra Berlusconi e gli elettori non ne risente. Al contrario: i livelli di fiducia crescono. Piove, anzi, tempesta: governo virtuoso. Edmondo Berselli, su Repubblica, ha sostenuto questa inversione di tendenza vi sia l'affermarsi di una forma di comunicazione politica. Anzi di un "format". Interpretato, sulla scia del Cavaliere, maestro insuperato, da alcuni attori politici abili.
Anzitutto, Brunetta, il persecutore dei fannulloni annidati nel pubblico impiego. Poi, la Gelmini, domatrice dei professori e dei maestri, incapaci di educare e disciplinare i nostri figli. Maroni, difensore degli italiani dall'invasione minacciosa di stranieri e rom. Infine, perfino la Carfagna, alla caccia di prostitute e clienti, da punire direttamente sulla strada; Un format che comunica in modo semplice problemi complessi; personalizzando le paure e le crisi, attraverso bersagli facili da colpire, che riflettono il senso comune e spostano il flusso della sfiducia e della delusione lontano dal governo.
Così la maggioranza degli italiani, riconoscente, si stringe intorno al governo, che li difende dalla minoranza deviante: professori, maestri, statali, immigrati, puttane. E dai piloti e i sindacati, colpevoli del possibile fallimento di Alitalia. Loro, non la politica che ha governato - e retto - le sorti della compagnia di bandiera per anni, decenni.
Oltre ogni ragionevole ragione.
Loro, che, pochi mesi fa, apparivano vittime del disegno del centrosinistra di svenderli agli stranieri, insieme alla compagnia. Tuttavia, oltre al format comunicativo del governo, c'è un'altra spiegazione. E' che ci siamo abituati, assuefatti alla delusione. Non la consideriamo uno emergenza, di cui ha colpa, anzitutto, chi manovra le leve di governo. Ma una situazione normale, per quanto sgradevole. Come la nebbia in val padana d'inverno e le zanzare d'estate. Gli italiani: non possono non dirsi delusi.
A prescindere.
Perché nessuno, è stato capace di sanare i bilanci, abbassare le tasse, rilanciare l'economia, ridurre la paura della criminalità. E se anche avvenisse, non ce ne accorgeremmo. D'altronde, anche se i crimini sono diminuiti, la paura è cresciuta lo stesso. E se il tasso di criminalità in Italia è tra i più bassi d'Europa, noi restiamo il paese europeo più impaurito e deluso.
Il più sfiduciato.
Chiunque ci governi. Berlusconi o Prodi. Per cui, dopo aver provato, invano, a invertire la rotta con il voto, cambiando governo e maggioranza, gli italiani si sono rassegnati. Così, oggi che la delusione è penetrata dovunque: nelle case, nelle famiglie nei vicoli, nei programmi tivù, negli indici di borsa che sembrano bollettini di guerra, nelle stime dei mercati, della produzione e dei consumi: oggi che la delusione è dappertutto, gli italiani hanno smesso di considerarla un accidente. La considerano una perturbazione durevole, uno stato di necessità. Che non è il caso di imputare a qualcuno. D'altronde, chi c'era prima ha fatto di meglio? E' riuscito a darci fiducia? A renderci felici?
Allora, inutile ritorcere la nostra rabbia, la nostra delusione, su chi governa oggi. Teniamocelo.
Accontentiamoci.
Tanto più se riesce a consolarci e a offrirci capri espiatori, a suggerirci che non è colpa nostra (né tanto meno sua). Ma se la delusione non costituisce più uno strumento di delegittimazione del governo, né un metodo di opposizione, allora - scusate la tautologia - per fare opposizione la delusione non serve.
Non solo, ma diventa dannosa.
Un boomerang.
Per fare opposizione occorrerebbe, al contrario, spingere la delusione più in là. Generare speranza, non nuove illusioni.
Ma la speranza è un attributo del futuro.
E il futuro, per ora, è solo una speranza. Pardon: un'illusione, che in pochi si ostinano a coltivare.

sabato 13 settembre 2008

DEDICATO


Non c'è molto da dire riguardo le polemiche volgari seguite alla dedica di Ddr della doppietta al suocero.
"Il Giornale", con la penna di Cristiano Gatti, lo ha insultato pesantemente dandogli del connivente, del boro, del borgataro e del complice. Non varrebbe la pena rispondere a qualunque cosa esca sul giornale del fratello del presidente del consiglio, un foglio che serve solo a incartare le uova, ma sono francamente stanco del razzismo becero, del pressapochismo cialtrone che alberga in quell'ambiente.
Mi servo della penna di Stefano Bocconetti che dalle colonne di "Liberazione" scrive parole che sento di condividere e a Gatti posso solo dire di mostrare lo stesso coraggio quando Berlusconi ribadirà che il mafioso Mangano era una brava persona o quando Alemanno e La Russa difenderanno nuovamente il fascismo.
Anche se dai maggiordomi non puoi mai aspettarti molto.
"E' successo diverse settimana fa.
In quel periodo ci fu qualche titolo sui giornali ma con discrezione.
Con una discrezione inusuale per il nostro paese e la nostra stampa. Come se all'improvviso i giornali avessero scelto di rispettare il dolore di una persona. Anche se si trattava di un personaggio pubblico.
Poi, l'altro ieri la doppietta di Daniele De Rossi in nazionale. Sul secondo gol, sui festeggiamento su quel gol a pochi secondi dalla fine, nessuno ha avuto nulla da ridire. Daniele è stato sommerso dall'abbraccio dei compagni. Un abbraccio liberatorio di una squadra, campione del mondo, che stava vivendo gli ultimi istanti della partita con la Georgia sotto assedio, con tutti e undici gli uomini di Lippi a difesa del vantaggio.
Il «problema», però, c'è stato al primo gol. Dopo il primo, splendido gol. Un tiro da trenta metri che si è andato ad infilare dove nessuno avrebbe potuto immaginare, all'incrocio dei pali. Daniele ha esultato da solo, prima di ricevere l'abbraccio dei compagni. Ha esultato da solo, in modo semplice, com'è nel suo carattere.
Un salto nell'aria, col pugno stretto. Un gesto che in tutto il mondo significa: ce l'ho fatta. Poi, ha rivolto lo sguardo al cielo e ha appoggiato due dita sulle labbra. Anche questo è un gesto di facilissima traduzione: è un saluto rivolto a qualcuno che non c'è più. A chi era dedicato quel gol? Negli spogliatoi, mentre Lippi rispondeva con improbabili commenti sul «dinamismo» degli azzurri ad altrettanto improbabili domande, qualcuno ha chiesto a De Rossi per chi fosse la dedica.
Nessun imbarazzo da parte del centrocampista giallorosso: per il padre di sua moglie.
Una risposta che non è passata inosservata. Non subito ma il giorno dopo. Quando un sindacato, uno dei sindacati dei poliziotti, ha scritto nientemeno che un comunicato per dire che il gesto di De Rossi era «diseducativo».
Non andava fatto. Perchè? Perché era rivolto ad una persona che aveva violato la legge, un bandito. Uno che aveva avuto precedenti con la giustizia. Il sindacato di polizia ha criticato De Rossi e gli ha offerto un suggerimento: la prossima volta dedichi le sue prodezze a degli eroi. Per esempio, alle vittime delle Twin Towers. Dimenticandosi che anche alcune delle vittime dell'11 settembre avevano avuto qualche guaio con la giustizia.
Ma non è finita.
Perché ieri un giornale - un giornale di destra: «Il Giornale» - ha dedicato un lungo fogliettone al caso. Definendo il gesto di De Rossi «imbarazzante e sgradevole». Pure qui, qualche suggerimento al calciatore: si può ricordare il suocero ucciso ma in privato.
Solo in privato.
E ancora: nell'ormai tradizionale conferenza stampa che precede le partite, solerti giornalisti hanno «investito» del problema anche l'allenatore giallorosso, Luciano Spalletti. Ma lei, che ne pensa?, gli hanno chiesto. E forse basterebbe la risposta pacata di uno dei più bravi allenatori italiani, per chiudere la vicenda: «Non è lecito giudicare i sentimenti... Ho letto dei titoli veramente imbarazzanti».Solo che Spalletti - che fra i suoi compiti ha anche quello di tenere lontano i suoi ragazzi dalla violenza di giornalisti mediocri - ha aggiunto che forse «meno se ne parla di questa vicenda meglio è per tutti».
Dal suo punto di vista è giusto.
Ma forse non è giusto per tutti gli altri. Perché quel comunicato del sindacato di polizia, la campagna dei giornali di destra raccontano di una barbarie che ha ormai superato ogni confine. La barbarie di un paese dove si bruciano i campi rom, dove bambini rom vengono torturati in una caserma - e nessun sindacato scrive comunicati di protesta -, un paese dove è vietato tutto, anche chiedere l'elemosina.
Ora il «controllo» arriva anche alla sfera personale, a quel che si prova.
Arriva al dolore. Perché c'è un dolore legittimo. Quello per le tragedie che «il senso comune» considera come sue, che la «maggioranza» - parlamentare e silenziosa - considera accettabili. Così sono permesse le lacrime davanti alle telecamere, così è consentito l'omaggio alle vittime.
Se sono «innocenti». Come quelle degli incidenti stradali o dell'11 settembre.
Niente da fare, invece, se il dolore è rivolto ad una persona che ha sbagliato. Ad un fuorilegge. O meglio: è consentito ma solo nel chiuso della propria stanza. Perché altrimenti si finisce per omaggiare un deviante. Queste sono le nuove leggi.
Dove conta colo cosa si è fatto e cosa si fa.
In una fabbrica come in una sperduta cittadina dell'hinterland romano.
Dove non contano mai le persone.
Con i loro sbagli, i loro errori, i loro sentimenti.
Queste sono le nuove leggi, i nuovi valori. Che rivendicano l'uguaglianza davanti alla morte solo se si tratta dei militari della Repubblica sociale. Ma che poi dividono fra morti buoni e morti cattivi. Fra morti da ricordare e morti da dimenticare.
Daniele ha rotto questo schema.
Con un gesto semplice, immediato.
Spontaneo.
E fra chi festeggia un gol mimando lo sparo di una raffica di mitra e chi manda un bacio al cielo, non c'è dubbio da che parte stare".

venerdì 12 settembre 2008

MALEGRIA



Da un blog dell'inviato di Repubblica, Dario Cresto-Dina:

"A Bologna quasi tutti ti si rivolgono con il tu. E’ bello, dà un senso di campagna, di grandi tavolate, di profumo di salame.

L’altra sorpresa, nei dieci minuti d’attesa per un taxi, sono due ragazzi che s’infilano in una cabina telefonica e parlano d’amore o di qualcosa che gli deve somigliare. Due in appena dieci minuti…Al tempo dei cellulari credevo non potesse succedere.

Il secondo avrà sedici o diciassette anni.

Grida nel telefono: voglio tornare single.

Quando esce gli chiedo come l’ha presa lei.

Gli ha detto: fallo, ma prima restituiscimi i cinquanta euro che ti ho prestato".

venerdì 22 agosto 2008

IL RESTO... MARCIA

Forse mancava la storia nazionalpopolare di un medagliato italiano.

Lo spunto per elzeviri e articolesse è giunto quando in Italia era notte piena e a Pechino piena mattinata grazie all'oro della 50 Km di marcia grazie ad un carabiniere altoatesino, Alex Schwarzer.

Ha letteralmente dominato la gara, ha fatto il Bolt, ha scoattato, è partito subito per primo, ha detto agli altri "e ora seguitemi", e ha passeggiato.

Durante la passeggiata, scocciato e annoiato perchè non aveva nessuno accanto a lui, ha cominciato a mostrare i bicipiti come Braccio di ferro, ha alzato i pugni al cielo e ha baciato a più riprese un braccialetto.

Ha fatto il tedesco, duro come la pietra, preciso, ma poi dentro lo stadio è crollato. una fontanella, lacrime a gargamella. non sembrava più di Vipiteno ma venire dal profondo sud, novella prefica. Lo psicodramma al microfono della Caporale; lei con il suo accento lievemente romano pieno di "cioè", "no", "vabbane" e lui che ha spiegato al paese intero il motivo delle sue lacrime con un'inflessione crucca.

Tutto racchiuso in quel fiocco nero portato sulla parte sinistra della canottiera, ricordo del nonno morto nel luglio scorso. Un pianto a dirotto, a singhiozzi, che ti prendeva al cuore, sincero, spontaneo per un nonno al quale Alex era molto affezionato.

Una situazione nuova, non banale, la stessa Caporale lo accarezzava perchè aveva proprio l'aria di un bambino spaurito e sperso in una cosa più grande di lui, quasi da piccolo Bambi.

Trovata la lucidità però ha detto "oggi non mi batteva neppure Superman". E di fronte alle domande insistite di chi gli chiedeva se il braccialetto di cui sopra non fosse dono della sua ragazza, la pattinatrice Carolina Kostner, lui pronto a rispondere:"Ma scusate,io vi ho mai chiesto niente sulle vostre mogli?".

Bisogna riguardare meglio la carta d'identità.

Alex non è nato a Vipiteno ma a Posillipo.

giovedì 21 agosto 2008

UN PRESIDENTE,C'E' SOLO UN PRESIDENTE /4


Ti sia lieve la terra Presidente, addio.

Da Il Messaggero di oggi l'articolo di Rita Sala:


"Non è esistito il nero, al funerale di Franco Sensi.

Non nera l’estate della Roma di fine agosto, ma luminosa, infuocata dalla luce di mezzogiorno.

Non nero il lutto. Come ha detto commossa Maria, la vedova, c’erano, «là fuori, quelli che stanno da ore sotto il sole».

E «quelli», i tifosi, hanno sfoggiato con orgoglio solo due colori, il giallo e il rosso, le tinte della squadra cui il Presidente ha regalato quindici anni di energia e, fra alti e bassi, di grandezza.

Non nera l’ala delle auto di ordinanza, né quella degli abiti di familiari e amici.

Nell’oceano d’ocra e amaranto creato dai fiori, dalle bandiere, dagli striscioni, dalle maglie e dalle sciarpe del popolo giallorosso, c’era invece il bianco.

Candidi i tralci di orchidee in boccio della corona del presidente della Lazio, Lotito.

Immacolati i guanti che i necrofori hanno infilato con cura, dito per dito, prima di toccare il feretro.

Candide le parole di monsignor Francesco Gioia, che ha commemorato Sensi passando per Eraclito e Heidegger: si è forse rivolto al Presidente laureato in matematica più che al leone ruggente cui la Roma si è riferita per tanto tempo.

Bianca la camicetta di Sabrina Ferilli, la madrina della Magica.

Bianca la lapide sulla tomba di marmo, al Verano, con sopra inciso un nome, una data di nascita e una di morte.

Nient’altro.

Ancora, il verde.

Quello degli occhi di Francesco Totti, il figlio maschio putativo che ieri, portando la bara verso la folla, ha reso il suo sguardo una fessura stretta. Forse per non piangere davanti al suo popolo.

Verdi e liquidi gli occhi di Fiorella, la mamma del Capitano, che abbracciando la vedova ha invece pianto, eccome.

Verde speranza, molto applaudita, la promessa del sindaco di Roma, Alemanno, di affrettare i tempi per la costruzione di uno stadio da intitolare al Presidente.

Non nera persino la pelle dei giocatori di colore. Baptista, che appena arrivato ha voluto portare a spalla il feretro, senza che affetto o gratitudine possano ancora legarlo a Franco Sensi, è sembrato d’oro liquido, di cioccolato fumante.

Non nera l’abbronzatura di Delvecchio (benché di sole, quest’estate, l’ex romanista ne abbia preso tanto): al Verano, Marco è sembrato pallido come un impiegato che non ha i soldi per andare al mare.

Il cordoglio per Franco Sensi ha fatto a meno dell’ombra.

Chiari i cori dei romanisti: di festa, di riconoscenza, di vittoria.

Chiara la dedica della squadra. Vincenzo Montella l’ha riassunta, leggendo con il groppo alla gola una lettera a nome di tutti, in due momenti luminosissimi: ti faremo sorridere là dove sei; non lasceremo mai soli te e la tua famiglia.

Non nero l’umore di Adriano Galliani, innaffiato al suo arrivo da qualche getto d’acqua minerale: sono cose che succedono, ha detto l’amministratore delegato del Milan, cose da niente.

Non neri i fischiati: Galliani stesso; Moratti simbolo dell’Inter stravincente; Cobolli Gigli; il gagliardetto del Milan.

Rossa, non nera, la vernice usata dai tifosi per scrivere sugli striscioni frasi come “Romanista con il cuore e con la mente, riposa in pace valoroso presidente”.

Giallorossa d’amore acceso la frase di Giovanni, sette anni, targato Roma dal berretto alle scarpe: «Ma lui ha insegnato tutto a sua figlia, vero?».

martedì 19 agosto 2008

UN PRESIDENTE, C'E' SOLO UN PRESIDENTE/3


Tornato di fresco dal Campidoglio dopo la visita alla camera ardente del presidente Franco Sensi.
Non potevo mancare, la Roma prima che una fede rappresenta uno stato d'animo ed io personalmente alla Roma devo molto, la reputo una compagna non secondaria, molto discreta, dei miei (a novembre) 31 anni.
Lo stare insieme ad altri compagni di ventura in un'ordinatissima fila, appena un'ora, ha alleviato la tristezza, lo scherzare ricordando episodi, brandelli di una vita in comune in giallorosso, ha reso il tutto un'allegra scampagnata sotto il sole giaguaro di mezzogiorno, appena alleviato da un ponentino paraculo nelle rare sacche d'ombra.
Persone di tutte le età, dai bambini ai nonni, in un caleidoscopio di emozioni, in una doccia scozzese di sensazioni che andavano dalla tristezza più estrema all'allegria ricordando le tante battaglie dialettiche ingaggiate dal presidente.
Come tutti i funerali che, non sembri un ossimoro, hanno anche una faccia allegra e non sono altro che un appuntamento per rivedersi con parenti ed amici che magari si erano persi di vista solo per qualche tempo ed il rivedersi fa sembrare il tempo trascorso un amen.
Fino all'entrata nell'aula Giulio Cesare, concessa da Alemanno (gesto di gran sensibilità), dove il presidente riposava circondata dalla moglie Maria, sempre sorridente e con un pensiero carino per tutti, le tre figlie, l'avvocato Conte e altri dirigenti dell'As Roma.
Pochi secondi di tempo sospeso, l'aula areata, il fresco intenso, il profumo dell'incenso, il silenzio che fende come una lama il brusio della piazza e il presidente con gli occhi chiusi, il riposo del guerriero con i sogni in giallorosso.
Un articolo di Roberto Renga da "Il Messaggero" di oggi:
Il primo giorno senza Franco Sensi scorre lento e triste.
C’è un vuoto, che ognuno cerca di riempire come può.
Con i ricordi e con le lacrime.
Il corpo del presidente si trova al Gemelli e vi resterà sino alla nove di questa mattina, quando si aprirà la camera ardente al Campidoglio, omaggio che Roma rende a chi l’ha fatta più grande.
La famiglia Sensi, unita dall’amore e dal dolore, non ha mai abbandonato la vasta sala che si trova al piano terra del villino Pacelli. La signora Maria accanto a sua sorella Angela, che qualche anno fa ha perso il marito Luciano, un uomo tenero e timido. Anche lui in estate.
Poi Rosella, poi Silvia, poi Cristina. Cinque donne fragili e di ferro. Il vecchio patriarca se n’è andato, ma ha lasciato il carattere e la Roma. Cinque signore in giallorosso. Guideranno la Roma e non c’è da preoccuparsi: questa squadra è sempre stata volubile e bella come una donna.
La signora Maria bussava alla porta della camera del Gemelli alle sette e quarantacinque e le sembrava di fare le cose di prima, quando scendeva prima al bar e poi all’edicola e tornava da Franco con la colazione e i giornali, che aveva già letto di corsa ed era un piacere raccontargli tutto.
Ora gli sedeva accanto, gli parlava.
Della Roma, delle figlie, di voi e di noi, di tutto.
Sensi ha seguito la brutta storia di Mutu, che prima ha detto sì e poi ha scoperto il no. Si è arrabbiato, il presidente. Una volta quante ne avrebbe sentite la Fiorentina.
Di Baptista, il suo ultimo acquisto, non ha saputo.
Solo venerdì la famiglia si è arresa. Sensi aveva sempre detto che l’ultima parola sarebbe stata la sua, anche con la più feroce delle nemiche: bisognava credergli.
A Ferrragosto invece, davanti a Maria Sensi, un’infermiera ha abbassato lo sguardo e la signora ha capito.
Ha aperto la porta.
L’ha richiusa. Si è seduta sulla stessa sedia degli altri giorni. Maria, ha sentito sussurrare. E ancora Maria, Maria, Maria. Sono qui. Come stai? ha chiesto il presidente. Sono state le ultime parole. La voce l’ha lasciato.
Non aveva malattie mortali. Si è arreso a una lunga serie di acciacchi. Vecchiaia, si potrebbe dire. O stanchezza se Sensi non fosse stato quell’uomo che si sa. Per due ore nella grande casa grigia sull’Aurelia si sono fermati Daniele Pradè, Bruno Conti, il generale Di Martino e Luciano Spalletti. Addirittura Bronzetti, l’agente che ha fatto fortuna in Spagna. Il sindaco Alemanno ha lanciato l’idea di uno stadio da dedicare a Franco Sensi. Un mare di telegrammi e tra questi quello del presidente della Repubblica.
Oltre il cancello del villino, il pullman di una televisione e la gente di Roma, silenziosa, commossa, partecipe. Nel pomeriggio anche la telefonata di Luciano Moggi, rivale e mai nemico.
La famiglia non chiede fiori. Chi vuole, può ricordare Franco Sensi aiutando il Gemelli a comprare un macchinario che farebbe comodo al reparto di terapia intensiva.
Tutti lo porteranno, comunque, nel cuore.
La sua voce, gli scatti d’ira, i momenti di tenerezza: Sensi era un uomo così e un presidente unico.
Prepariamoci, ci mancherà.
In questi casi dicono che bisogna farsene una ragione: fosse facile.

lunedì 18 agosto 2008

UN PRESIDENTE, C'E' SOLO UN PRESIDENTE/ 2

Dall'articolo di Tonino Cagnucci da "Il Romanista" di oggi:

"Ha mantenuto la sua ultima parola: «Finché vivo la Roma non la lascio».

Tutto il resto è bla bla bla.

Gliel’ha chiesta il mondo; sia i russi sia gli americani, però, hanno trovato un muro che la storia è riuscita ad abbattere, ma che il sentimento di un uomo ha tenuto alto. «Finché vivo la Roma non la lascio». Erano domande che non potevano avere risposta: la Roma chi è romanista non la vende mai, e mai mai mai se è stato tuo padre a fondarla, se l’hai vista nascere in culla. Piccolo e grande amore.

Aveva un anno Franco Sensi quando la Roma è nata. Hanno fatto tutto il percorso insieme. Si sono accompagnati come fanno le parole in una lettera: in quella che scrisse per il compleanno della società un anno fa disse: «Gli 80 anni della Roma sono i miei 80 anni».

Ecco perché oggi che è morto, Franco Sensi non muore: la Roma mica finisce, passano solo i giorni. E se c’è un modo per accompagnare un amore fino al termine della vita, il suo è stato il migliore: starle sempre accanto.Una volta (non era neanche un anno alla presidenza) Sensi, ultimo grande custode di una tradizione orale romanista che si sta spegnendo in urlaccia tele-radiofoniche, disse: «Mio padre oggi avrebbe più di cent’anni: non si è mai stancato di raccontare la Roma, e a me sembra di averli vissuti e rivissuti più volte, quei giorni e quei fatti».

Quasi per presentarsi parlò così "di giorni e fatti", di epoche, di pezzi d’epoche, e pezzi di racconti. Cioè di miti. Ma all’origine non ci sono superuomini, oracoli, dei o mostri, piuttosto nomi e cognomi conosciuti, erba di casa sua, i calzoncini corti che il papà indossava nella Pro Roma, il legno del comodino accanto al letto che era lo stesso di campo Testaccio (perché fu Re Silvio ad ordinarne i materiali per la costruzione).

E’ quando l’album delle figurine Panini è quello di famiglia, il sogno un’abitudine di condominio; la Roma, allora, che hai respirato e imparato, già solo per questo ti diventa tutto: oltre che padre, e mamma com’è per tutti, passione e lavoro, ambizione e cura, casa e stadio, ricordo e futuro, grande palcoscenico e insieme il tuo posto delle fragole.

Ecco perché ha sempre detto: «Finché vivo la Roma non la lascio».

Ecco perché non l’ha lasciata ancora, neanche oggi: oggi è mai.

Gliel’ha chiesta il mondo, i russi e gli americani, con gli aerei che hanno veramente volato tra New York e Mosca, ma lui aveva già scelto la Matematica (ci si è laureato) come mestiere: l’equazione era sempre la stessa. «La Roma è mia».

E basta.

Gliela chiedevano, ma erano domande che non potevano avere una risposta perché questa storia è nata da una domanda che non le aspettava: quel pomeriggio in cui lui, come Re Lear, riunì le donne della sua famiglia per chiedere consiglio sull’opportunità di comprarla, la Roma. Apparentemente affari, profondamente, cuore.

"Nothing", sir.

L’aveva già presa, era già sua. E’ stata sempre sua.

Anche troppo.

Per la Roma ci è anche morto.

Questa è la storia un amore pertinace, così tanto, così vero, che per lo stesso motivo Franco Sensi, nei suoi primi anni di guida, è stato anche il presidente più contestato della storia romanista.

Bla bla bla.

Pareva troppo stretto l’abbraccio tra presidente e società, addirittura solipsistico, pareva facesse rima soltanto con proprietà: "La Roma è mia". Era un’equazione senza risultati e basta. Vinceva la Lazio, vinceva l’antistoria, l’antimateria: come se bruciasse il legno di Testaccio.Ma Sensi costruiva in un mondo che soltanto si spettacolarizzava, metteva da parte quando di moda andava chi sperperava: erano favole semplici che nessuno più raccontava, la formica e la cicala.

Derby.

Come un vecchio ritornello che nessuno canta più.

Il derby per Sensi è stato il suo grande cimento da presidente perché dall’altra parte c’era Sergio Cragnotti che aveva costruito la Lazio più forte di sempre. Cragnotti è stato "nemico" di Sensi quanto e come la Lazio della Roma: quasi arrivati contemporaneamente alla presidenza, hanno costruito le proprie squadre con due filosofie non solo diverse, ma antitetiche. Rampante, manageriale, spumeggiante, iperspettacolare quella del laziale; artigianale, saggia, familiare, antica, romanesca, quella del romanista.

Alla fine è rimasto solo Sensi.

Alla fine il presidente ha avuto ragione su tutto.

Era stato bla bla bla perché aveva cacciato il mercante dal tempio, Luciano Moggi, che prese a male parole, lo mandò candidamente e testualmente affanculo, e pareva lesa maestà, e pareva il suicidio strategico, quasiun’irresponsabilità politica. Forse anche peggio quando parlò degli arbitri e di Carraro come di «un’associazione a delinquere».

Venne punito, multato, deferito e irriverito per questo: oggi gli si fanno gli editoriali di "bravo-bravissimo" soprattutto per questo, mentre trequarti degli arbitri e del Palazzinaccio loro hanno smesso perché erano corrotti, perché le partite non erano vere veramente, e la Juve le rubava, e pure il Milan faceva qualcosa che non doveva fare, mentre la Lazio si dileguava.

Era il calcio che schifo fa. Ci poteva giurare Franco Sensi e l’ha fatto: «Finché vivo la Roma non la lascio».

Il presidente bla bla bla ha mantenuto anche l’ultima parola. Come un vecchio ritornello che nessuno canta più, col colbacco a gennaio sotto la Curva Sud, l’urlo ragazzino al 3-3 di Totti, e il carabiniere che sorrideva vicino e Guido Paglia triste là sotto. E poi: «Chi ha segnato il ragazzino?».

Sì.

Come c’era un ragazzino quella notte di primavera sotto le scalette di un aereo che tornava a Fiumicino da Milano con una coppa, con gli aerei che continuano a volare tra New York e Mosca, aspettando un’altra notte, un’altra coppa.

E adesso magari su, con Agostino. Qualcosa sarà più chiaro.

Franco Sensi ha visto milioni di bandiere sventolargli davanti. Ha fatto la gente felice quel giorno al Circo Massimo, ma, soprattutto, ha avuto modo di guardare tutta quella felicità.

Un giorno racconteranno di persone arrampicate sugli alberi per una grande festa romanista, raccontando scopriranno che quelle persone erano veramente a milioni, che sono state per strada giorni, che c’erano uomini e donne fin sopra al Palatino, lì, sul colle dov’è nata Roma. Racconteranno.

Qualche stupido non ci crederà e, come quasi tutti oggi, dirà: show must go on.

Ma no, stavolta lo spettacolo non proseguisce.