venerdì 22 agosto 2008

IL RESTO... MARCIA

Forse mancava la storia nazionalpopolare di un medagliato italiano.

Lo spunto per elzeviri e articolesse è giunto quando in Italia era notte piena e a Pechino piena mattinata grazie all'oro della 50 Km di marcia grazie ad un carabiniere altoatesino, Alex Schwarzer.

Ha letteralmente dominato la gara, ha fatto il Bolt, ha scoattato, è partito subito per primo, ha detto agli altri "e ora seguitemi", e ha passeggiato.

Durante la passeggiata, scocciato e annoiato perchè non aveva nessuno accanto a lui, ha cominciato a mostrare i bicipiti come Braccio di ferro, ha alzato i pugni al cielo e ha baciato a più riprese un braccialetto.

Ha fatto il tedesco, duro come la pietra, preciso, ma poi dentro lo stadio è crollato. una fontanella, lacrime a gargamella. non sembrava più di Vipiteno ma venire dal profondo sud, novella prefica. Lo psicodramma al microfono della Caporale; lei con il suo accento lievemente romano pieno di "cioè", "no", "vabbane" e lui che ha spiegato al paese intero il motivo delle sue lacrime con un'inflessione crucca.

Tutto racchiuso in quel fiocco nero portato sulla parte sinistra della canottiera, ricordo del nonno morto nel luglio scorso. Un pianto a dirotto, a singhiozzi, che ti prendeva al cuore, sincero, spontaneo per un nonno al quale Alex era molto affezionato.

Una situazione nuova, non banale, la stessa Caporale lo accarezzava perchè aveva proprio l'aria di un bambino spaurito e sperso in una cosa più grande di lui, quasi da piccolo Bambi.

Trovata la lucidità però ha detto "oggi non mi batteva neppure Superman". E di fronte alle domande insistite di chi gli chiedeva se il braccialetto di cui sopra non fosse dono della sua ragazza, la pattinatrice Carolina Kostner, lui pronto a rispondere:"Ma scusate,io vi ho mai chiesto niente sulle vostre mogli?".

Bisogna riguardare meglio la carta d'identità.

Alex non è nato a Vipiteno ma a Posillipo.

giovedì 21 agosto 2008

UN PRESIDENTE,C'E' SOLO UN PRESIDENTE /4


Ti sia lieve la terra Presidente, addio.

Da Il Messaggero di oggi l'articolo di Rita Sala:


"Non è esistito il nero, al funerale di Franco Sensi.

Non nera l’estate della Roma di fine agosto, ma luminosa, infuocata dalla luce di mezzogiorno.

Non nero il lutto. Come ha detto commossa Maria, la vedova, c’erano, «là fuori, quelli che stanno da ore sotto il sole».

E «quelli», i tifosi, hanno sfoggiato con orgoglio solo due colori, il giallo e il rosso, le tinte della squadra cui il Presidente ha regalato quindici anni di energia e, fra alti e bassi, di grandezza.

Non nera l’ala delle auto di ordinanza, né quella degli abiti di familiari e amici.

Nell’oceano d’ocra e amaranto creato dai fiori, dalle bandiere, dagli striscioni, dalle maglie e dalle sciarpe del popolo giallorosso, c’era invece il bianco.

Candidi i tralci di orchidee in boccio della corona del presidente della Lazio, Lotito.

Immacolati i guanti che i necrofori hanno infilato con cura, dito per dito, prima di toccare il feretro.

Candide le parole di monsignor Francesco Gioia, che ha commemorato Sensi passando per Eraclito e Heidegger: si è forse rivolto al Presidente laureato in matematica più che al leone ruggente cui la Roma si è riferita per tanto tempo.

Bianca la camicetta di Sabrina Ferilli, la madrina della Magica.

Bianca la lapide sulla tomba di marmo, al Verano, con sopra inciso un nome, una data di nascita e una di morte.

Nient’altro.

Ancora, il verde.

Quello degli occhi di Francesco Totti, il figlio maschio putativo che ieri, portando la bara verso la folla, ha reso il suo sguardo una fessura stretta. Forse per non piangere davanti al suo popolo.

Verdi e liquidi gli occhi di Fiorella, la mamma del Capitano, che abbracciando la vedova ha invece pianto, eccome.

Verde speranza, molto applaudita, la promessa del sindaco di Roma, Alemanno, di affrettare i tempi per la costruzione di uno stadio da intitolare al Presidente.

Non nera persino la pelle dei giocatori di colore. Baptista, che appena arrivato ha voluto portare a spalla il feretro, senza che affetto o gratitudine possano ancora legarlo a Franco Sensi, è sembrato d’oro liquido, di cioccolato fumante.

Non nera l’abbronzatura di Delvecchio (benché di sole, quest’estate, l’ex romanista ne abbia preso tanto): al Verano, Marco è sembrato pallido come un impiegato che non ha i soldi per andare al mare.

Il cordoglio per Franco Sensi ha fatto a meno dell’ombra.

Chiari i cori dei romanisti: di festa, di riconoscenza, di vittoria.

Chiara la dedica della squadra. Vincenzo Montella l’ha riassunta, leggendo con il groppo alla gola una lettera a nome di tutti, in due momenti luminosissimi: ti faremo sorridere là dove sei; non lasceremo mai soli te e la tua famiglia.

Non nero l’umore di Adriano Galliani, innaffiato al suo arrivo da qualche getto d’acqua minerale: sono cose che succedono, ha detto l’amministratore delegato del Milan, cose da niente.

Non neri i fischiati: Galliani stesso; Moratti simbolo dell’Inter stravincente; Cobolli Gigli; il gagliardetto del Milan.

Rossa, non nera, la vernice usata dai tifosi per scrivere sugli striscioni frasi come “Romanista con il cuore e con la mente, riposa in pace valoroso presidente”.

Giallorossa d’amore acceso la frase di Giovanni, sette anni, targato Roma dal berretto alle scarpe: «Ma lui ha insegnato tutto a sua figlia, vero?».

martedì 19 agosto 2008

UN PRESIDENTE, C'E' SOLO UN PRESIDENTE/3


Tornato di fresco dal Campidoglio dopo la visita alla camera ardente del presidente Franco Sensi.
Non potevo mancare, la Roma prima che una fede rappresenta uno stato d'animo ed io personalmente alla Roma devo molto, la reputo una compagna non secondaria, molto discreta, dei miei (a novembre) 31 anni.
Lo stare insieme ad altri compagni di ventura in un'ordinatissima fila, appena un'ora, ha alleviato la tristezza, lo scherzare ricordando episodi, brandelli di una vita in comune in giallorosso, ha reso il tutto un'allegra scampagnata sotto il sole giaguaro di mezzogiorno, appena alleviato da un ponentino paraculo nelle rare sacche d'ombra.
Persone di tutte le età, dai bambini ai nonni, in un caleidoscopio di emozioni, in una doccia scozzese di sensazioni che andavano dalla tristezza più estrema all'allegria ricordando le tante battaglie dialettiche ingaggiate dal presidente.
Come tutti i funerali che, non sembri un ossimoro, hanno anche una faccia allegra e non sono altro che un appuntamento per rivedersi con parenti ed amici che magari si erano persi di vista solo per qualche tempo ed il rivedersi fa sembrare il tempo trascorso un amen.
Fino all'entrata nell'aula Giulio Cesare, concessa da Alemanno (gesto di gran sensibilità), dove il presidente riposava circondata dalla moglie Maria, sempre sorridente e con un pensiero carino per tutti, le tre figlie, l'avvocato Conte e altri dirigenti dell'As Roma.
Pochi secondi di tempo sospeso, l'aula areata, il fresco intenso, il profumo dell'incenso, il silenzio che fende come una lama il brusio della piazza e il presidente con gli occhi chiusi, il riposo del guerriero con i sogni in giallorosso.
Un articolo di Roberto Renga da "Il Messaggero" di oggi:
Il primo giorno senza Franco Sensi scorre lento e triste.
C’è un vuoto, che ognuno cerca di riempire come può.
Con i ricordi e con le lacrime.
Il corpo del presidente si trova al Gemelli e vi resterà sino alla nove di questa mattina, quando si aprirà la camera ardente al Campidoglio, omaggio che Roma rende a chi l’ha fatta più grande.
La famiglia Sensi, unita dall’amore e dal dolore, non ha mai abbandonato la vasta sala che si trova al piano terra del villino Pacelli. La signora Maria accanto a sua sorella Angela, che qualche anno fa ha perso il marito Luciano, un uomo tenero e timido. Anche lui in estate.
Poi Rosella, poi Silvia, poi Cristina. Cinque donne fragili e di ferro. Il vecchio patriarca se n’è andato, ma ha lasciato il carattere e la Roma. Cinque signore in giallorosso. Guideranno la Roma e non c’è da preoccuparsi: questa squadra è sempre stata volubile e bella come una donna.
La signora Maria bussava alla porta della camera del Gemelli alle sette e quarantacinque e le sembrava di fare le cose di prima, quando scendeva prima al bar e poi all’edicola e tornava da Franco con la colazione e i giornali, che aveva già letto di corsa ed era un piacere raccontargli tutto.
Ora gli sedeva accanto, gli parlava.
Della Roma, delle figlie, di voi e di noi, di tutto.
Sensi ha seguito la brutta storia di Mutu, che prima ha detto sì e poi ha scoperto il no. Si è arrabbiato, il presidente. Una volta quante ne avrebbe sentite la Fiorentina.
Di Baptista, il suo ultimo acquisto, non ha saputo.
Solo venerdì la famiglia si è arresa. Sensi aveva sempre detto che l’ultima parola sarebbe stata la sua, anche con la più feroce delle nemiche: bisognava credergli.
A Ferrragosto invece, davanti a Maria Sensi, un’infermiera ha abbassato lo sguardo e la signora ha capito.
Ha aperto la porta.
L’ha richiusa. Si è seduta sulla stessa sedia degli altri giorni. Maria, ha sentito sussurrare. E ancora Maria, Maria, Maria. Sono qui. Come stai? ha chiesto il presidente. Sono state le ultime parole. La voce l’ha lasciato.
Non aveva malattie mortali. Si è arreso a una lunga serie di acciacchi. Vecchiaia, si potrebbe dire. O stanchezza se Sensi non fosse stato quell’uomo che si sa. Per due ore nella grande casa grigia sull’Aurelia si sono fermati Daniele Pradè, Bruno Conti, il generale Di Martino e Luciano Spalletti. Addirittura Bronzetti, l’agente che ha fatto fortuna in Spagna. Il sindaco Alemanno ha lanciato l’idea di uno stadio da dedicare a Franco Sensi. Un mare di telegrammi e tra questi quello del presidente della Repubblica.
Oltre il cancello del villino, il pullman di una televisione e la gente di Roma, silenziosa, commossa, partecipe. Nel pomeriggio anche la telefonata di Luciano Moggi, rivale e mai nemico.
La famiglia non chiede fiori. Chi vuole, può ricordare Franco Sensi aiutando il Gemelli a comprare un macchinario che farebbe comodo al reparto di terapia intensiva.
Tutti lo porteranno, comunque, nel cuore.
La sua voce, gli scatti d’ira, i momenti di tenerezza: Sensi era un uomo così e un presidente unico.
Prepariamoci, ci mancherà.
In questi casi dicono che bisogna farsene una ragione: fosse facile.

lunedì 18 agosto 2008

UN PRESIDENTE, C'E' SOLO UN PRESIDENTE/ 2

Dall'articolo di Tonino Cagnucci da "Il Romanista" di oggi:

"Ha mantenuto la sua ultima parola: «Finché vivo la Roma non la lascio».

Tutto il resto è bla bla bla.

Gliel’ha chiesta il mondo; sia i russi sia gli americani, però, hanno trovato un muro che la storia è riuscita ad abbattere, ma che il sentimento di un uomo ha tenuto alto. «Finché vivo la Roma non la lascio». Erano domande che non potevano avere risposta: la Roma chi è romanista non la vende mai, e mai mai mai se è stato tuo padre a fondarla, se l’hai vista nascere in culla. Piccolo e grande amore.

Aveva un anno Franco Sensi quando la Roma è nata. Hanno fatto tutto il percorso insieme. Si sono accompagnati come fanno le parole in una lettera: in quella che scrisse per il compleanno della società un anno fa disse: «Gli 80 anni della Roma sono i miei 80 anni».

Ecco perché oggi che è morto, Franco Sensi non muore: la Roma mica finisce, passano solo i giorni. E se c’è un modo per accompagnare un amore fino al termine della vita, il suo è stato il migliore: starle sempre accanto.Una volta (non era neanche un anno alla presidenza) Sensi, ultimo grande custode di una tradizione orale romanista che si sta spegnendo in urlaccia tele-radiofoniche, disse: «Mio padre oggi avrebbe più di cent’anni: non si è mai stancato di raccontare la Roma, e a me sembra di averli vissuti e rivissuti più volte, quei giorni e quei fatti».

Quasi per presentarsi parlò così "di giorni e fatti", di epoche, di pezzi d’epoche, e pezzi di racconti. Cioè di miti. Ma all’origine non ci sono superuomini, oracoli, dei o mostri, piuttosto nomi e cognomi conosciuti, erba di casa sua, i calzoncini corti che il papà indossava nella Pro Roma, il legno del comodino accanto al letto che era lo stesso di campo Testaccio (perché fu Re Silvio ad ordinarne i materiali per la costruzione).

E’ quando l’album delle figurine Panini è quello di famiglia, il sogno un’abitudine di condominio; la Roma, allora, che hai respirato e imparato, già solo per questo ti diventa tutto: oltre che padre, e mamma com’è per tutti, passione e lavoro, ambizione e cura, casa e stadio, ricordo e futuro, grande palcoscenico e insieme il tuo posto delle fragole.

Ecco perché ha sempre detto: «Finché vivo la Roma non la lascio».

Ecco perché non l’ha lasciata ancora, neanche oggi: oggi è mai.

Gliel’ha chiesta il mondo, i russi e gli americani, con gli aerei che hanno veramente volato tra New York e Mosca, ma lui aveva già scelto la Matematica (ci si è laureato) come mestiere: l’equazione era sempre la stessa. «La Roma è mia».

E basta.

Gliela chiedevano, ma erano domande che non potevano avere una risposta perché questa storia è nata da una domanda che non le aspettava: quel pomeriggio in cui lui, come Re Lear, riunì le donne della sua famiglia per chiedere consiglio sull’opportunità di comprarla, la Roma. Apparentemente affari, profondamente, cuore.

"Nothing", sir.

L’aveva già presa, era già sua. E’ stata sempre sua.

Anche troppo.

Per la Roma ci è anche morto.

Questa è la storia un amore pertinace, così tanto, così vero, che per lo stesso motivo Franco Sensi, nei suoi primi anni di guida, è stato anche il presidente più contestato della storia romanista.

Bla bla bla.

Pareva troppo stretto l’abbraccio tra presidente e società, addirittura solipsistico, pareva facesse rima soltanto con proprietà: "La Roma è mia". Era un’equazione senza risultati e basta. Vinceva la Lazio, vinceva l’antistoria, l’antimateria: come se bruciasse il legno di Testaccio.Ma Sensi costruiva in un mondo che soltanto si spettacolarizzava, metteva da parte quando di moda andava chi sperperava: erano favole semplici che nessuno più raccontava, la formica e la cicala.

Derby.

Come un vecchio ritornello che nessuno canta più.

Il derby per Sensi è stato il suo grande cimento da presidente perché dall’altra parte c’era Sergio Cragnotti che aveva costruito la Lazio più forte di sempre. Cragnotti è stato "nemico" di Sensi quanto e come la Lazio della Roma: quasi arrivati contemporaneamente alla presidenza, hanno costruito le proprie squadre con due filosofie non solo diverse, ma antitetiche. Rampante, manageriale, spumeggiante, iperspettacolare quella del laziale; artigianale, saggia, familiare, antica, romanesca, quella del romanista.

Alla fine è rimasto solo Sensi.

Alla fine il presidente ha avuto ragione su tutto.

Era stato bla bla bla perché aveva cacciato il mercante dal tempio, Luciano Moggi, che prese a male parole, lo mandò candidamente e testualmente affanculo, e pareva lesa maestà, e pareva il suicidio strategico, quasiun’irresponsabilità politica. Forse anche peggio quando parlò degli arbitri e di Carraro come di «un’associazione a delinquere».

Venne punito, multato, deferito e irriverito per questo: oggi gli si fanno gli editoriali di "bravo-bravissimo" soprattutto per questo, mentre trequarti degli arbitri e del Palazzinaccio loro hanno smesso perché erano corrotti, perché le partite non erano vere veramente, e la Juve le rubava, e pure il Milan faceva qualcosa che non doveva fare, mentre la Lazio si dileguava.

Era il calcio che schifo fa. Ci poteva giurare Franco Sensi e l’ha fatto: «Finché vivo la Roma non la lascio».

Il presidente bla bla bla ha mantenuto anche l’ultima parola. Come un vecchio ritornello che nessuno canta più, col colbacco a gennaio sotto la Curva Sud, l’urlo ragazzino al 3-3 di Totti, e il carabiniere che sorrideva vicino e Guido Paglia triste là sotto. E poi: «Chi ha segnato il ragazzino?».

Sì.

Come c’era un ragazzino quella notte di primavera sotto le scalette di un aereo che tornava a Fiumicino da Milano con una coppa, con gli aerei che continuano a volare tra New York e Mosca, aspettando un’altra notte, un’altra coppa.

E adesso magari su, con Agostino. Qualcosa sarà più chiaro.

Franco Sensi ha visto milioni di bandiere sventolargli davanti. Ha fatto la gente felice quel giorno al Circo Massimo, ma, soprattutto, ha avuto modo di guardare tutta quella felicità.

Un giorno racconteranno di persone arrampicate sugli alberi per una grande festa romanista, raccontando scopriranno che quelle persone erano veramente a milioni, che sono state per strada giorni, che c’erano uomini e donne fin sopra al Palatino, lì, sul colle dov’è nata Roma. Racconteranno.

Qualche stupido non ci crederà e, come quasi tutti oggi, dirà: show must go on.

Ma no, stavolta lo spettacolo non proseguisce.

UN PRESIDENTE, C'E' SOLO UN PRESIDENTE/1



La notizia non è giunta inaspettata, sapevamo da tempo che il presidente Franco Sensi era gravemente malato ma la notizia davvero è giunta inaspettata. Spesso l'estate con la sua noncuranza sporta con sè un certo rilassamento che ti rende quasi inoffensivo, inerte di fronte a notizie così drammatiche.

Da oggi Roma e la Roma sono un pò più sole, il suo condottiero ha lasciato il nostro mondo all'età di 82 anni.

Ho appeso la bandiera giallorossa in finestra quasi non rendendomi conto di quanto tutto ora sarà diverso.

Personalmente a Sensi devo molto, se grazie a Viola avevamo assaporato il rinascere di una Roma stabilmente ai piani alti, grazie a lui ho imparato l'orgoglio di portare tatuati nel mio cuore i colori giallorossi. Non è tanto per lo scudetto e nè per i tanti successi ottenuti in Italia o la considerazione a livello europeo ma per la felicità nel sapere che si poteva camminare e correre a testa alta.

Il mito della diversità non piace, nè a livello politico nè tantomeno a quello sportivo, ma si, mi sento e mi sentivo migliore degli altri. Una squadra che si autofinanzia, tre romani in squadra, un romano capitano e un presidente diverso dai tanti capitani d'industria.

Le sue battaglie contro il palazzo, gli arbitri, "l'associazione a delinquere" (così l'aveva definita), Moggi, Giraudo, Bettega, Galliani, Pairetto, Bergamo ti facevano essere fiero, nessuno poteva mettere in dubbio la nostra onestà, anche nel caso dei Rolex messi regolarmente a bilancio.

E ora tutti a sdilinquirsi e a rimpiangere le virtù dell'uomo, è abbastanza irritante leggere le condoglianze ufficiali di Lazio, Juve, Milan e Fiorentina. Irritante perchè il presidente Sensi è stato ucciso soprattutto dai loro comportamenti e dalla loro indifferenza.

Ma, ancor di più, il disprezzo maggiore è per la stampa, per la tv, per i comunicatori in genere, che oggi stanno vergando colonne d'inchiostro con una montagna di parole alle quali loro stessi non credono. Leggere stamattina i pezzi di Beccantini (rivoltante e disgustoso), Sconcerti (falsissimo), Palombo (patetico) o immaginare cosa scriveranno o diranno i vari Ansaldo, Maida, Padovan, Crosetti, Damascelli, Ordine, Bonan, Civoli, Calabrese, Arturi, Garlando, Oreggia, Cannavò e compagnia cantante mi fa veramente ribrezzo. I lacchè del potere, sempre asserviti ai potenti, squallidi radical e/o conservatory chic, pure un pò razzisti (alcuni nati anche a sud di Roma) non stanchi di leccare avidamente le natiche a gentaccia varia, ora piangono lacrime di coccodrillo.

Solo l'immenso dolore mi fa alzare gli occhi al cielo e dire, "una risata vi seppellirà", peccato però che oggi non ci sia nulla da ridere.

Questo il ritratto di Roberto Renga da "Il Messaggero" di oggi:

"Franco Sensi non c’è più.

Lascia una bella famiglia, la Roma, due milioni di tifosi che l’amavano.

Siamo tutti più soli e questo è un brutto giorno, freddo e buio.

Negli ultimi anni le sofferenze l’avevano cambiato fisicamente, ma il carattere era sempre quello ed è così che lo teniamo nel cuore.

Un tipico romano, dicevano.

La sua famiglia veniva invece da Visso, che si trova nelle Marche, al confine con l’Umbria. Terra di montagna. Di gente dura, come i Sensi, che sono arrivati a Roma e l’hanno conquistata. E’ tutto mio, disse una volta, indicando la campagna che dall’Aurelia scivola sino al mare. E raccontò, come una fiaba: i nobili perdevano al gioco e chiedevano i soldi ai miei avi. Che in cambio ottenevano la terra.

Eccola.

Era orgoglioso della sua storia. Gli piaceva il racconto del provinciale che si faceva beffe del cittadino ricco e stupido. Ma lui era nato qui. A Madonna del Riposo, dove c’era il campo della Fortitudo, una delle tre squadre che dettero vita alla Roma e nella quale giocava suo padre Silvio. A Roma i giocatori erano studenti e gli studenti erano ricchi. Nel resto del mondo, del calcio si erano già impossessate le grandi industrie che tenevano in mano gli operai con un pallone.

A Roma il treno del calcio giunse in ritardo. Stava per chiudersi l’epoca della Pro Vercelli e del Casale e nella capitale si giocava nei parchi, i libri di scuola a fare i pali e le macchine con autista a delimitare il campo.

Silvio Sensi era uguale a Franco, solo con i capelli più alti, come si portavano allora. Divenne ingegnere. Progettò Testaccio, lo stadio di legno che, muovendosi al vento, sembrava una nave fragile. Silvio tenne a battesimo la Roma, i cui dirigenti si vedevano proprio a casa sua e sotto il tavolo finiva spesso un bambino di un anno, curiosissimo. Era Franco, poco più grande della Roma, di cui si è sempre considerato il fratello maggiore e come tale l’ha guardata e protetta sino alla fine.Divenne un buon calciatore. Faceva molti gol ed era un fulmine. Una foto in bianco e nero mostra un bel ragazzo dall’aria svelta con una Coppa in mano. Aveva appena vinto il titolo di capocannoniere. Prometteva bene. Lo richiese la Roma e divenne uno dei ”boys”. La mattina a scuola, il pomeriggio qualche volta agli allenamenti. A spasso per Roma, impettito e solo nel sedile posteriore della grande auto scura.Il padre lo chiamò. Ti diverti? gli chiese. Sì, papà, rispose Franco. Ma tu non sei nato per fare il calciatore: dovrai guidare un impero economico. Va bene, papà. Fine della storia.

Franco Sensi si mise a studiare sul serio. Prese il diploma. Prese anche la laurea in matematica. La domenica andava allo stadio, dove giocava la Roma, che un giorno, l’ha sempre saputo, sarebbe stata sua. Partecipò alle prime riunioni tecniche e politiche della sua vita. Era piccolo e timido e gli altri l’invitavano a parlare per vederlo arrossire. Non lo conoscevano.

Sensi poteva perdere una volta, due no. Si allenò, parlando per ore davanti a uno specchio. Sino a quando, mentre attorno al tavolo ovale già erano pronti a sghignazzare, fu proprio lui a chiedere la parola. Si alzò e tenne un discorso chiaro, senza cadute o sbavature. Aveva stravinto, come spesso gli sarebbe capitato durante la sua lunga, avventurosa e magica vita.

E’ sempre stato legato a Visso, dove c’è la vecchia villa di famiglia. Vi tornava tre volte all’anno: agosto, Pasqua, Natale. La signora Maria apriva le finestre, dava uno sguardo alla casa e poi invitava il marito a seguirla. Uscivano appoggiandosi l’una all’altro. E la signora guardava con sospetto le donne che salutavano Franco e allora guardava subito lui, che si inchinava, togliendosi il cappello e regalando un sorriso.

Gelosa, sempre.

Come chi ama, del resto.

Di Visso, è stato anche sindaco. Non c’era lavoro e Sensi risolse alla sua maniera il problema: aprì un’azienda e assunse cinquanta persone. Pizze surgelate. L’ho fatto per loro, disse poi, e ci sto guadagnando un sacco di soldi. Sempre così. Fortunato, forse, ma soprattutto ricco e abile. I soldi danno la sicurezza, l’abilità triplica i soldi. Terreni. Alberghi. Palazzi. L’ottanta per cento del petrolio arrivato dal Tirreno passava per i suoi container e così l’impero ogni giorno si ingrandiva, sino a quando lo stesso Franco faticò a rintracciarne i confini.

Era un anonimo miliardario.

Prese la Roma e divenne un miliardario famosissimo. Scoprimmo Franco, la signora Maria che l’ha sempre viziato portandogli i primi cornetti della mattina e i giornali, la cognata Fioravanti, le tra figlie, che si somigliano così tanto da creare imbarazzo nell’interlocutore di passaggio. Franco e le sue donne. Dava ordini, per pentirsi subito dopo.

Si commosse il giorno in cui Rosella si laureò con centodieci e lode. Un fenomeno, disse al cronista: potresti pubblicare la notizia? Un padre qualsiasi. Nonostante il successo, la gloria, il danaro, il potere. Guardava le sue care ragazze e si emozionava, come quando, da ragazzo, gli chiedavano di parlare in pubblico.

Accanto, soltanto due uomini: Luciano e Vittorio. Il primo era il marito della Fioravanti e ragalava a tutti un sorriso, pronto a mettersi in disparte. Se n’è andato in silenzio.

L’altro gli ha fatto da autista per una vita. Lo assunse e non gli chiese niente per qualche anno. Mi piaci, monta in macchina, gli disse poi. Si poteva fidare.

Con la Roma ha fatto malino e poi bene e benissimo. Un mondo nuovo e ha pagato pedaggio. Prese Mazzone e dopo Mazzone e Bianchi prese Zeman e lo difese sino a quando capì che il Palazzo non gli avrebbe fatto vincere neppure una Coppa Italia. A Trigoria arrivò Capello. Venne raggiunto da Batistuta. E Sensi vinse lo scudetto e si sentì almeno pari all’altro grande presidente della Roma, Dino Viola. Per vincere spese troppo e pagò i debiti mettendo in vendita i gioielli di famiglia: qualche albergo, un giornale, terreni.

Vennero gli anni della malattia. Ci mancavano e ci mancheranno le sue sfuriate, le sue urla e la sua dolcezza. Era un uomo. Con i difetti e i pregi di un uomo semplice e puro come un bambino. Alzava la voce e si meravigliava se l’altro abbassava la cornetta. Era lui a richiamare: ma che ho fatto? Va bene. Scusa. E lo scusavi.

Perchè non c’era veleno nelle sue parole e Sensi era esattamente come i suoi tifosi lo volevano e lo vedevano. Era come loro, appena più fortunato: poteva parlare con Totti e mandare a quel paese chiunque.

Rosella lo ha sostituito benissimo in questi anni e farà ancora meglio in futuro e sarà nell’insieme più brava e equilibrata del padre.

Ma non è Franco Sensi, che aveva fatto di una magnifica e romantica imperfezione il suo marchio di fabbrica".

domenica 17 agosto 2008

UNA DOMENICA COSI'

Nella giornata di ieri ho avuto il piacere di tornare in un luogo da sogno, il ristorante "Da Domenico" al Pigneto, dove ho banchettato con una gricia da sballo, un abbacchio da sogno, un tiramisu da enciclopedia, un bianco gradevole e un buon caffè.

Mi permetto di allegare la recensione del locale direttamente dai colleghi del blog "Magnaroma":

"Dunque, venerdì scorsa era la volta del Guercio, aka Domenico al Pigneto: già per arrivarci è un impegno, perchè l'indirizzo è via Zuccagni Orlandini, che peraltro Tuttocittà ignora alla grande, ma in realtà la strada finisce nel nulla, e l'ingresso vero è su via del Pigneto, di fronte alla trattoria rivale Qui se Magna da Valeria, dove è stato appena sistemata l'area verde con panchine e giochi per bambini!

Entriamo (i 5 dell'ave maria: io-Federiko, Marco il consigliere, Angelo il giornalista, Paolino il padrone, Albertino il blogger), e ci sorprende il solito avventore onnipresente, con cappellino da montagna, che scommette sugli anticipi della serie B e segue la partita con gli aggiornamenti del televideo, perdendo regolarmente ogni volta :

-(Ci sediamo, ordiniamo il vino bianco della casa (ambrato, buono) e poi i primi. Sono arrivate 4 penne con le cozze + 1 carbonara, come sempre in piatti da pizza riempiti non alla Vissani (10 cmq) ma alla "tutto quello che ci sta dentro": buoni come al solito, sebbene la specialità della casa siano i famosi gnocchi, ma oggi è venerdì e quindi pesce!

Poi i secondi, fatti riservare al momento della prenotazione, ovvero baccalà con patate al forno, frittura mista e abbacchio allo scottadito: baccalà notevole e in proporzioni più che generose, fritto normale, abbacchio buono a dire di Albertino che se l'è scofanato.

Indi i dolci, gli amari, i caffè e gli ammazzacaffè, tra cui una crema catalana che di catalano non aveva nulla (piuttosto liquida, servivano i biscotti da intingere) e un sorprendente Fernet d'altri tempi.Infine chiediamo il conto... e arriva il garzone con la magica parola: 100 euri!

Man mano che si frequenta il posto il conto scende, da 25 a testa siamo scesi a 20 e prossimamente contiamo di ridurre ulteriormente la tariffa ;-)".

venerdì 15 agosto 2008

GIUSY - Non ti scordar mai di me


Lo so,
lei ha vinto X-Factor sonsorizzata dalla Ventura e osteggiata da Morgan.

Lo so, la canzone l'ha scritta Tiziano Ferro

insomma sempre peggio

ma a me piace, che debbo far?

giovedì 14 agosto 2008

SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE




Da un articolo del prof. Sergio Luzzatto sul Corriere della Sera di qualche giorno fa:


"Ho fatto un sogno: il sogno di una notte di mezza estate.


Ho sognato che il premier del mio Paese, inquisito per corruzione, andava in televisione a reti unificate, e annunciava le proprie dimissioni con le seguenti parole:


«Sono orgoglioso di essere cittadino di un Paese che indaga sul primo ministro. Nessuno è al di sopra della legge, neppure al di sotto. Sono stato costretto a difendermi contro gli attacchi instancabili di autoproclamati "combattenti per la giustizia". Lascerò l' incarico in modo onorevole e dopo proverò la mia innocenza».


Sì, ho sognato questo in una notte di mezza estate.


Poi, verso l' alba, mi sono risvegliato, e allora ho scoperto due cose, una bella e una brutta.


Dico prima la cosa bella: nel sogno non avevo inventato nulla, quelle erano esattamente le parole pronunciate in tv - appena pochi giorni prima - da un premier inquisito per corruzione, e ormai dimissionario.


Adesso dico la cosa brutta: da sveglio, il mio Paese non era Israele, era l' Italia."

lunedì 11 agosto 2008

LA CINA E' VICINA


Sento di condividere quanto scrive, nel proprio blog, il corrispondente del Corriere della Sera, Fabio Cavalera:

"Tutte le Olimpiadi lasciano un segno.

E anche queste non sfugggono alle regola.

Qualcuno (il sottoscritto in testa) le associa ai tematiche importanti quali i diritti umani o l'ambiente: indubbiamente la Cina deve almeno compiere qualche gesto di buona volontà - a proposito , il Cio come e quando ha incalzato? - e deve ritoccare profondamente il suo modello di sviluppo. Ma quando si è qui, alla fine, si viene presi dalla passione e dalle emozioni per le gare, per gli atleti, per lo sport.

Il resto rimane, per carità, però emergono anche altri sentimenti e considerazioni.

In questi primi giorni una delle cose che mi colpisce di più è la profonda separazione fra l'Italia e l'Italietta.

L'Italia è quella che è venuta in CIna per vincere un po' di medaglie.

E si sta comportando molto bene.

Per altro circondata da una profonda ammirazione da parte dei cinesi. Lo si è visto anche alla cerimonia inaugurale. L'ingresso della nostra delegazione non è stato accolto nell'indifferenza. L'Italia è, ancora, quella di molti giovani che sono in Cina a lavorare o di molti imprenditori che portano qui le loro eccellenze. Sfidando le incomprensioni, le difficoltà e mille problemi.

L'Italietta è quella che non c'è e che continua a considerare la Cina come un mondo da cancellare o peggio da ricacciare indietro.

La nostra politica ha dato ancora una volta un'immagine pietosa di se stessa.

Dove siamo?

Vedo leader di tutti i Paesi approfittare delle Olimpiadi per fare un po' di relazioni pubbliche. Necessarie e utili.

Non significa prostrarsi ai piedi del Gigante.

Significa essere realisti.

E noi?

Un lettore mi ha rimproverato di avere scritto che Manuela Di Centa (membro Cio), piazzata in tribuna autorità, non fosse un esempio di sensibilità politica. E' vero che la Di Centa ne ha diritto, proprio in quanto membro Cio: non è questo il problema.

Il problema è che se Prodi è premier, viene in Cina e anzichè occuparsi di Cina si preoccupa del caso Telecom (ricordate? mezzo governo in trasferta che, fra lo stupore dei cinesi, si premurava a curare le beghe dell'orticello di casa).

Se Berlusconi è premier, prende a pretesto la stanchezza per eclissarsi.

Intanto, la Cina, antipatica o no, va.

Ecco queste Olimpiadi ci consegnano l'immagine di un'Italia e di un'Italietta".

lunedì 4 agosto 2008

GIOCO DI SPECCHI


Mattinata con due notizie a prima vista diverse ma che in profondità possono nascondere dei punti contatto.

La scomparsa di Alexander Solzenicjin, uno dei massimi scrittori mondiali e già premio Nobel per la letteratura, il cantore dell' arcipelago gulag, scomparso ieri sera.

Grazie alla sua penna abbiamo potuto conoscere gli orrori e le storture dello stalinismo, la crudeltà e l'efferatezza dell'universo concentrazionario sovietico. Dieci anni di durissima detenzione a causa di una lettera nella quale lo scrittore avrebbe alluso in modo sconveniente al Piccolo padre della patria, Stalin, una caduta in un incubo raccontata poi lucidamente.
Il clima ostico, la ripetitività delle azioni, le stupide crudeltà, le meschinità degli altri prigionieri rese in modo magistrale, un ulteriore colpo nei confronti di chi continuava ad auspicare un mondo nuovo guidato dalle speranze di un comunismo dal volto umano.

Di fronte ad un uomo così coraggioso che avuto il coraggio di difendere le proprie idee è davvero terrificante tornare alle facezie di cosa nostra e leggere le dichiarazioni di Alemanno e Fini su una riapertura del processo contro Fioravanti e la Mambro sulla strage di Bologna. In questo dibattito quello che manca è sempre il pensiero degli 85 morti, calpestati ancora una volta in nome di gretti interessi di parte.

Non si vuole scoprire la verità ma saldare un debito di gioventù: voi mettevate le bombe e noi, in doppiopetto, facevamo carriera con l'aria rispettabile. Ma forse quello che occorre spiegare sono le responsabilità di coloro che armavano giovani ragazzi in nome di una impossibile rivoluzione nazionalfascista facendogli fare un lavoro sporco.

Sono passati 28 anni, i debiti di fede non cadono mai in prescrizione.

venerdì 1 agosto 2008

L'ASSENZA

Da un articolo di Miriam Mafai da "La Repubblica di oggi":

"Dunque la Camera ha votato.

E ha deciso di sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale contro la decisione della Corte di Cassazione che aveva finalmente consentito alla richiesta del padre di Eluana Englaro di sospendere l'alimentazione e l'idratazione forzata della figlia in stato vegetativo permanente da ormai sedici anni.

La Camera ha votato e il pg di Milano ha fatto ricorso contro la sentenza, dunque la povera Eluana dovrà ancora restare attaccata a quel sondino, invecchiare così nel buio profondo di una morte non ancora ufficialmente certificata.

Da più di dieci anni giacciono di fronte alla nostre assemblee elettive proposte di legge intitolate dal cosiddetto "testamento biologico" grazie al quale ognuno di noi avrebbe il diritto di decidere della fine della sua vita, quando e come e perché staccare quel sondino e quelle macchine che possono tenerti immobilizzato, per anni, in quello spazio di morte che non è più la morte naturale di una volta, ma l'orrore di una zona intermedia in cui è una macchina che pompa il sangue, ti alimenta artificialmente per un tempo che può durare per anni.

Per Eluana sono passati già sedici anni.

L'orrore di questa condizione inumana non conta nulla di fronte al voto dei nostri parlamentari.

Non conta nulla nemmeno la sentenza della Cassazione che finalmente aveva acceduto alla richiesta del padre di Eluana.

Non conta nulla nemmeno il fatto che le nostre assemblee elettive, non siano riuscite nel corso degli anni passati a esaminare ed approvare una delle molte proposte di legge sul "testamento biologico" che metterebbero ognuno di noi al riparo da questa violenza esercitata sui nostri corpi alla fine delle nostra vita.

Ma quello che più mi ha colpito nella seduta di ieri della Camera dei deputati, di fronte a quel voto, è stata il silenzio dei parlamentari del Partito Democratico. Il loro rifiuto di assumere una posizione e di esprimersi con un sì o con un no. Il loro ripiegare su un'astensione che appare una fuga dalle responsabilità.

Il caso Englaro è di fronte alla pubblica opinione e alle assemblee legislative da quasi dieci anni.

Non è certamente colpa del Partito Democratico se una legge equilibrata sul testamento biologico non è stata ancora discussa e approvata. Basterebbe ricordare a questo proposito l'instancabile azione svolta da uno scienziato come Ignazio Marino, eletto senatore nelle file del Pd. Questa battaglia continuerà, penso, al Senato, dove è stata recentemente presentata una proposta di legge sottoscritta da cento senatori del Pd, dell'Italia dei Valori e del Pdl.

Ma ieri, alla Camera, il Partito Democratico ha preferito non prendere parte alla votazione.

Non mi convince la spiegazione che ne è stata fornita in aula. Sappiamo tutti che convivono nel Pd sentimenti e parlamentari laici e cattolici. Sappiamo tutti che una mediazione tra queste diverse culture richiede attenzione, intelligenza e prudenza. Ma ci sono casi e momenti in cui la prudenza rischia di apparire indifferenza o pavidità.

Attorno al caso di Eluana Englaro, alla sua tragedia e a quella del padre, attorno a un caso drammatico che investe la coscienza di tutti noi, era lecito attendersi una posizione limpida ed equilibrata dei deputati del Partito Democratico.

Non c'è stata.

È una brutta giornata, questa, per chi crede nel Partito Democratico e nella laicità del nostro Stato".