lunedì 18 agosto 2008

UN PRESIDENTE, C'E' SOLO UN PRESIDENTE/1



La notizia non è giunta inaspettata, sapevamo da tempo che il presidente Franco Sensi era gravemente malato ma la notizia davvero è giunta inaspettata. Spesso l'estate con la sua noncuranza sporta con sè un certo rilassamento che ti rende quasi inoffensivo, inerte di fronte a notizie così drammatiche.

Da oggi Roma e la Roma sono un pò più sole, il suo condottiero ha lasciato il nostro mondo all'età di 82 anni.

Ho appeso la bandiera giallorossa in finestra quasi non rendendomi conto di quanto tutto ora sarà diverso.

Personalmente a Sensi devo molto, se grazie a Viola avevamo assaporato il rinascere di una Roma stabilmente ai piani alti, grazie a lui ho imparato l'orgoglio di portare tatuati nel mio cuore i colori giallorossi. Non è tanto per lo scudetto e nè per i tanti successi ottenuti in Italia o la considerazione a livello europeo ma per la felicità nel sapere che si poteva camminare e correre a testa alta.

Il mito della diversità non piace, nè a livello politico nè tantomeno a quello sportivo, ma si, mi sento e mi sentivo migliore degli altri. Una squadra che si autofinanzia, tre romani in squadra, un romano capitano e un presidente diverso dai tanti capitani d'industria.

Le sue battaglie contro il palazzo, gli arbitri, "l'associazione a delinquere" (così l'aveva definita), Moggi, Giraudo, Bettega, Galliani, Pairetto, Bergamo ti facevano essere fiero, nessuno poteva mettere in dubbio la nostra onestà, anche nel caso dei Rolex messi regolarmente a bilancio.

E ora tutti a sdilinquirsi e a rimpiangere le virtù dell'uomo, è abbastanza irritante leggere le condoglianze ufficiali di Lazio, Juve, Milan e Fiorentina. Irritante perchè il presidente Sensi è stato ucciso soprattutto dai loro comportamenti e dalla loro indifferenza.

Ma, ancor di più, il disprezzo maggiore è per la stampa, per la tv, per i comunicatori in genere, che oggi stanno vergando colonne d'inchiostro con una montagna di parole alle quali loro stessi non credono. Leggere stamattina i pezzi di Beccantini (rivoltante e disgustoso), Sconcerti (falsissimo), Palombo (patetico) o immaginare cosa scriveranno o diranno i vari Ansaldo, Maida, Padovan, Crosetti, Damascelli, Ordine, Bonan, Civoli, Calabrese, Arturi, Garlando, Oreggia, Cannavò e compagnia cantante mi fa veramente ribrezzo. I lacchè del potere, sempre asserviti ai potenti, squallidi radical e/o conservatory chic, pure un pò razzisti (alcuni nati anche a sud di Roma) non stanchi di leccare avidamente le natiche a gentaccia varia, ora piangono lacrime di coccodrillo.

Solo l'immenso dolore mi fa alzare gli occhi al cielo e dire, "una risata vi seppellirà", peccato però che oggi non ci sia nulla da ridere.

Questo il ritratto di Roberto Renga da "Il Messaggero" di oggi:

"Franco Sensi non c’è più.

Lascia una bella famiglia, la Roma, due milioni di tifosi che l’amavano.

Siamo tutti più soli e questo è un brutto giorno, freddo e buio.

Negli ultimi anni le sofferenze l’avevano cambiato fisicamente, ma il carattere era sempre quello ed è così che lo teniamo nel cuore.

Un tipico romano, dicevano.

La sua famiglia veniva invece da Visso, che si trova nelle Marche, al confine con l’Umbria. Terra di montagna. Di gente dura, come i Sensi, che sono arrivati a Roma e l’hanno conquistata. E’ tutto mio, disse una volta, indicando la campagna che dall’Aurelia scivola sino al mare. E raccontò, come una fiaba: i nobili perdevano al gioco e chiedevano i soldi ai miei avi. Che in cambio ottenevano la terra.

Eccola.

Era orgoglioso della sua storia. Gli piaceva il racconto del provinciale che si faceva beffe del cittadino ricco e stupido. Ma lui era nato qui. A Madonna del Riposo, dove c’era il campo della Fortitudo, una delle tre squadre che dettero vita alla Roma e nella quale giocava suo padre Silvio. A Roma i giocatori erano studenti e gli studenti erano ricchi. Nel resto del mondo, del calcio si erano già impossessate le grandi industrie che tenevano in mano gli operai con un pallone.

A Roma il treno del calcio giunse in ritardo. Stava per chiudersi l’epoca della Pro Vercelli e del Casale e nella capitale si giocava nei parchi, i libri di scuola a fare i pali e le macchine con autista a delimitare il campo.

Silvio Sensi era uguale a Franco, solo con i capelli più alti, come si portavano allora. Divenne ingegnere. Progettò Testaccio, lo stadio di legno che, muovendosi al vento, sembrava una nave fragile. Silvio tenne a battesimo la Roma, i cui dirigenti si vedevano proprio a casa sua e sotto il tavolo finiva spesso un bambino di un anno, curiosissimo. Era Franco, poco più grande della Roma, di cui si è sempre considerato il fratello maggiore e come tale l’ha guardata e protetta sino alla fine.Divenne un buon calciatore. Faceva molti gol ed era un fulmine. Una foto in bianco e nero mostra un bel ragazzo dall’aria svelta con una Coppa in mano. Aveva appena vinto il titolo di capocannoniere. Prometteva bene. Lo richiese la Roma e divenne uno dei ”boys”. La mattina a scuola, il pomeriggio qualche volta agli allenamenti. A spasso per Roma, impettito e solo nel sedile posteriore della grande auto scura.Il padre lo chiamò. Ti diverti? gli chiese. Sì, papà, rispose Franco. Ma tu non sei nato per fare il calciatore: dovrai guidare un impero economico. Va bene, papà. Fine della storia.

Franco Sensi si mise a studiare sul serio. Prese il diploma. Prese anche la laurea in matematica. La domenica andava allo stadio, dove giocava la Roma, che un giorno, l’ha sempre saputo, sarebbe stata sua. Partecipò alle prime riunioni tecniche e politiche della sua vita. Era piccolo e timido e gli altri l’invitavano a parlare per vederlo arrossire. Non lo conoscevano.

Sensi poteva perdere una volta, due no. Si allenò, parlando per ore davanti a uno specchio. Sino a quando, mentre attorno al tavolo ovale già erano pronti a sghignazzare, fu proprio lui a chiedere la parola. Si alzò e tenne un discorso chiaro, senza cadute o sbavature. Aveva stravinto, come spesso gli sarebbe capitato durante la sua lunga, avventurosa e magica vita.

E’ sempre stato legato a Visso, dove c’è la vecchia villa di famiglia. Vi tornava tre volte all’anno: agosto, Pasqua, Natale. La signora Maria apriva le finestre, dava uno sguardo alla casa e poi invitava il marito a seguirla. Uscivano appoggiandosi l’una all’altro. E la signora guardava con sospetto le donne che salutavano Franco e allora guardava subito lui, che si inchinava, togliendosi il cappello e regalando un sorriso.

Gelosa, sempre.

Come chi ama, del resto.

Di Visso, è stato anche sindaco. Non c’era lavoro e Sensi risolse alla sua maniera il problema: aprì un’azienda e assunse cinquanta persone. Pizze surgelate. L’ho fatto per loro, disse poi, e ci sto guadagnando un sacco di soldi. Sempre così. Fortunato, forse, ma soprattutto ricco e abile. I soldi danno la sicurezza, l’abilità triplica i soldi. Terreni. Alberghi. Palazzi. L’ottanta per cento del petrolio arrivato dal Tirreno passava per i suoi container e così l’impero ogni giorno si ingrandiva, sino a quando lo stesso Franco faticò a rintracciarne i confini.

Era un anonimo miliardario.

Prese la Roma e divenne un miliardario famosissimo. Scoprimmo Franco, la signora Maria che l’ha sempre viziato portandogli i primi cornetti della mattina e i giornali, la cognata Fioravanti, le tra figlie, che si somigliano così tanto da creare imbarazzo nell’interlocutore di passaggio. Franco e le sue donne. Dava ordini, per pentirsi subito dopo.

Si commosse il giorno in cui Rosella si laureò con centodieci e lode. Un fenomeno, disse al cronista: potresti pubblicare la notizia? Un padre qualsiasi. Nonostante il successo, la gloria, il danaro, il potere. Guardava le sue care ragazze e si emozionava, come quando, da ragazzo, gli chiedavano di parlare in pubblico.

Accanto, soltanto due uomini: Luciano e Vittorio. Il primo era il marito della Fioravanti e ragalava a tutti un sorriso, pronto a mettersi in disparte. Se n’è andato in silenzio.

L’altro gli ha fatto da autista per una vita. Lo assunse e non gli chiese niente per qualche anno. Mi piaci, monta in macchina, gli disse poi. Si poteva fidare.

Con la Roma ha fatto malino e poi bene e benissimo. Un mondo nuovo e ha pagato pedaggio. Prese Mazzone e dopo Mazzone e Bianchi prese Zeman e lo difese sino a quando capì che il Palazzo non gli avrebbe fatto vincere neppure una Coppa Italia. A Trigoria arrivò Capello. Venne raggiunto da Batistuta. E Sensi vinse lo scudetto e si sentì almeno pari all’altro grande presidente della Roma, Dino Viola. Per vincere spese troppo e pagò i debiti mettendo in vendita i gioielli di famiglia: qualche albergo, un giornale, terreni.

Vennero gli anni della malattia. Ci mancavano e ci mancheranno le sue sfuriate, le sue urla e la sua dolcezza. Era un uomo. Con i difetti e i pregi di un uomo semplice e puro come un bambino. Alzava la voce e si meravigliava se l’altro abbassava la cornetta. Era lui a richiamare: ma che ho fatto? Va bene. Scusa. E lo scusavi.

Perchè non c’era veleno nelle sue parole e Sensi era esattamente come i suoi tifosi lo volevano e lo vedevano. Era come loro, appena più fortunato: poteva parlare con Totti e mandare a quel paese chiunque.

Rosella lo ha sostituito benissimo in questi anni e farà ancora meglio in futuro e sarà nell’insieme più brava e equilibrata del padre.

Ma non è Franco Sensi, che aveva fatto di una magnifica e romantica imperfezione il suo marchio di fabbrica".

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