sabato 31 maggio 2008

Agostino

Da "La Repubblica" del 31 maggio 1994 così scriveva Gianni Mura:

"Arriva la notizia e si cerca di capire ed è stupido ma inevitabile avere questa reazione.

Forse non c' è niente da capire, come in quella canzone che ti piaceva tanto, a te che non hai mai avuto paura di tirare un calcio di rigore, neanche quella sera col Liverpool.

Ti ripenso a fronte bassa e ti chiedo scusa se il mio mestiere è parlare. Meriteresti, capitano, il silenzio che si riserva a chi ha deciso di aprire, da solo, l' ultima porta. E quando ha deciso la spalanca e va di là.

Quasi tutti si sparano alla testa, non al cuore, e mi sto chiedendo se non fosse questo il tuo messaggio. Perché è difficile capire, immaginarti sul terrazzo fiorito, il bel paesaggio intorno, con una pistola in mano.

Perché doveva essere immensa la voglia di aprire la porta, e meditata a lungo (sei sempre stato un tipo riflessivo e lontanissimo dai cosiddetti gesti inconsulti) e preferirei non saperne l' origine, per rispetto alla tua storia, alla tua vita, al tuo cuore.

I ricordi dei compagni ti disegnano bene. Bruno Conti, uno dei più vicini a te, pur così diverso, ha detto che eri bravissimo a prenderti in spalla i problemi dello spogliatoio e a difenderli davanti al presidente.

In effetti, questa era l' immagine tua: bravo ma lento in campo, una specie di capoclasse fuori.

Garrone.

Mi veniva spontaneo il confronto, anche perché parlavi volentieri dei problemi dei ragazzini, della scuola, della violenza. Facevi proposte, anche: sette-otto anni fa, quella di rendere obbligatorio dalle elementari l' insegnamento della storia dello sport. Dello sport, non solo del calcio, perché capissero qualche valore in più, perché avessero la mentalità giusta.

A te le sceneggiate non erano mai piaciute nemmeno in campo. Coltivavi la serietà con attenzione, non diventasse musoneria. Ma niente caciare, niente pacche sulle spalle.

E adesso, a pensarci, credo non ti piacesse nemmeno essere chiamato Ago oppure Diba (Di Bartolomei troppo lungo per i titoli, Agostino fuori moda in un calcio di Christian e Gianluca).

Agostino Di Bartolomei lo scrivo adesso per esteso e c' è quasi il profumo del pane d' una volta.

Agostino cresciuto sui campetti di Tor Marancia e capitano della Roma scudetto, Agostino che leggeva, cercava sempre di migliorarsi, andava a teatro, e lamentava, lui bravo ma lento, la velocità dei giudizi, la frenesia, la videodipendenza, e rivendicava il diritto alla ponderatezza, alla calma non fredda ma civile, lui adesso s' è sparato al cuore e l' ha ritrovato sul terrazzo il figlio che tornava da scuola, lui aveva già deciso di tirarsi fuori dal mondo, a nemmeno quarant' anni.

E' tutto vero e amaro, non è un brutto scherzo, capitano.
E quando mai ne hai fatti di scherzi? Impossibile solo immaginarti partecipare a un gavettone, e anche da giovane avevi l' aria da anziano, con una faccia sempre identica, mai modificata con baffi o basette, i capelli neri brillanti con riga sulla sinistra e un colorito scuro, quasi mediorientale.

Solo tu, negli anni del grande odio, potevi permetterti di dire di aver sempre ammirato lo stile-Juve. Che poi per te era soprattutto continuità di gestione, la stessa di Inter e Milan con Moratti e Rizzoli (quando parlavamo di queste cose, Berlusconi non era ancora entrato nel calcio). Il ciclo della Roma dipendeva da Viola, dicevi, e aggiungevi che per tutto il sud, da Napoli a Bari a Palermo, l' efficienza delle squadre del nord non doveva essere un bersaglio di sfottò ma un obiettivo.

Si parlava a casa tua, oltre la Laurentina, che (me l' aspettavo) non sembrava la casa di un calciatore. Molti libri, molti dischi, molti quadri, ricordo quelli dei due figli, firmati da Guttuso. Nemmeno una maglia, una coppa, una fotografia in divisa da calciatore.

Dicevi, già allora, che la velocità del gioco era un mito imperfetto, e bisognava tornare a insegnare la tecnica. Avevi seguito Liedholm al Milan, ci eravamo visti qualche volta in ristoranti del Varesotto, si sceglieva una volta per uno e devo dire che ne capivi (me l' aspettavo, tornava nel quadro).

E poi avevi aperto una scuola di calcio e ultimamente avevi voglia di rientrare (cosa più difficile, per chi è serio) e probabilmente sotto questo profilo non ti ha giovato l' isolamento a San Marco di Castellabate (un nome più lungo del tuo).

Ma lì stava la tua famiglia e lì stavi tu. Da uomo, da marito, da padre responsabile, con un innato senso del dovere, della dignità, della lealtà.

Così ti vedevo e continuerò a vederti, Agostino Di Bartolomei, oltre il buio che hai scelto.

Capitani non si nasce.

Si diventa e si muore.

E adesso silenzio, davvero".

venerdì 30 maggio 2008

Vasco Rossi - Silvia

E'stata una bellissima giornata, una di quelle che ti ricaricano.

Mi piace chiudere gli occhi per un attimo e cantare questa canzone che nel mio cuore ha sempre avuto un posto speciale, e per tanti motivi.

lunedì 26 maggio 2008

Carmen Consoli - L'eccezione

E l'eccezione si chiama Roma.
Non si tratta di vittorie morali ma della certezza che ci troviamo di fronte a qualcosa di grande, di unico. E ora, davvero, se la divertimo...

Dal Corriere dello Sport di ieri, il raconto del vicedirettore Luigi Ferrajolo:

"La Coppa non vale lo scudetto ma è bella lo stesso.
Ancora più bella se brilla tra le mani di Totti, capitano sfor­tunato ma comparso in cam­po al momento giusto.
Ancora più bella, se premia una squa­dra come la Roma, che chiude la stagione con due trofei, un secondo posto e una Cham­pions onorata sino ai quarti.
Se premia una squadra con grandi virtù e un cuore così.

L’Inter con lo scudetto fresco fresco sul petto non si danne­rà per questo e la spartizione tra le due grandi rivali si ripe­te pari pari come nella stagio­ne scorsa.
La Roma ha co­munque meritato la Coppa giocando meglio questa fina­le, non la vince per meriti ac­quisiti, ma perchè l’ha strap­pata all’Inter con più rabbia e più voglia.
Il suo primo tempo è stato impeccabile e la Roma ha avuto solo il torto, peraltro non piccolo, di buttare all’aria molte occasioni.
Solo un gol, quello di Mexes, che si è sosti­tuito magicamente agli attac­canti un po’ assenti e un po’ in ombra sotto porta. Poi ha rad­doppiato in avvio di ripresa e a quel punto la partita sem­brava finita.
La Roma ha [...] retto, tra gesti atletici quasi eroici, d’altri tempi.
Tra crampi e tackle disperati, ha retto ecco­me all’assalto dell’Inter e dun­que questa Coppa alla fine è bella e strameritata.
Chiude degnamente una stagione da incorniciare.

Nessuno dica adesso che l’Inter non ci ha provato, che insomma sazia per lo scudetto, l’abbia lascia­ta come consolazione alla ri­vale: l‘Inter si è battuta con rabbia sino alla fine, ma non ce l’ha fatta.

Mica c’è sempre Zanetti che la salva alla fine".

martedì 13 maggio 2008

R.E.M. Electrolite


Quando qualcuno scriverà una canzone più bella, fatemi un fischio

giovedì 8 maggio 2008

Verona infedele


In questo paese per fortuna c'è ancora qualcuno che fa inchieste serie.

Da La Repubblica di oggi, l'inviato Giuseppe D'Avanzo così racconta la Verona di oggi, a poco meno di una settimana dall'aggressione mortale a Nicola:

"Nicola e Raffaele - Nicola dieci anni prima di Raffaele, dieci anni prima di essere ucciso da Raffaele - hanno studiato nello stesso liceo, lo "Scipione Maffei", fiero di essere il più antico liceo d'Italia. Nato nel 1804, promosso da Bonaparte, il "Maffei" è orgoglioso della sua storia bicentenaria, ma anche delle virtù custodite, generazione dopo generazione, in una carta dei valori che onora "lo spirito critico; la laboriosità; la legalità; l'assunzione di responsabilità; la coscienza dei diritti e dei doveri".

È un impegno che si respira nelle aule dell'antico convento domenicano annesso alla Chiesa di Santa Anastasia, a due passi da Piazza Erbe, da Piazza dei Signori, dal cuore storico di Verona.

Il liceo non è un luogo abitato da svuotati, sprecati. Né è attraversato dall'"analfabetismo emotivo", dalla "follia morale", dall'"ospite inquietante" del nichilismo, o come più vi piace definire l'infelice condizione giovanile del nostro Paese.

Al "Maffei" si discute molto.
Si lavora molto.
Si impara a dare forma di parola alle emozioni, nutrimento e argomenti per le passioni e le idee.

Qui è radicata la consapevolezza che la democrazia sia "ars dubiae". Si ha fiducia "nella tolleranza, nel rispetto, in una solidarietà generosamente disponibile, in un reale e radicale rispetto di se stessi e degli altri".

Sono pratiche quotidiane e non predicazione (gli studenti, per dire, si tassano ogni anno di 250 euro e quest'anno hanno deciso spontaneamente di aumentare l'obolo di solidarietà).

E allora bisogna chiedersi dove nasce la muffa aggressiva che ha rovinato i giorni di Raffaele e spezzato la vita di Nicola?

"Ce lo siamo chiesti - dice con "doloroso stupore" il preside Francesco Butturini - e ancora ci interrogheremo con i docenti, gli studenti, i genitori. Ci siamo chiesti se abbiamo fatto tutto quanto in nostro potere per educare gli studenti alla buona cittadinanza. Noi crediamo di aver sempre cercato attraverso l'insegnamento quotidiano e le attività educative complementari, che qui non sono poche, di inculcare negli allievi i principi della civile convivenza. Non è stato sufficiente per insegnare a Raffaele ciò che è lecito, ciò che non lo è, ciò che non è nemmeno pensabile o ipotizzabile.

Mi sento sconfitto, come ho detto ai ragazzi, ma non complice. Non siamo stati né indifferenti né distratti.

Quando Raffaele si rifiutò di entrare in sinagoga durante un viaggio di studio; quando affrontò il presidente dell'associazione vittime della strage di Bologna rivendicando l'innocenza di Luigi Ciavardini, segnalammo quell'atteggiamento alla famiglia. Al contrario, la questura non ci informò che Raffaele era indagato da un anno. Avremmo potuto fare di più e continueremo a farlo nel dialogo e nel confronto con i ragazzi.

Senza dimenticare Raffaele. Non intendiamo abbandonarlo in questo momento e speriamo che Raffaele accolga il nostro invito; comprenda il suo tragico errore; accetti di incamminarsi su una strada radicalmente differente da quella finora seguita".


Il preside non vuole e forse non può dire di più.

Il deficit del circuito istituzionale e mediatico (perché la Digos non allertò la scuola? perché i giornali cittadini non diedero conto, come d'abitudine, dei nomi degli indagati?) descrive un'occasione perduta di "recupero", di disvelamento, ma non spiega le ragioni della "caduta" di Raffaele in un "rito della crudeltà", per nulla occasionale o impulsivo, che nel tempo si è esercitato nel cuore di Verona contro "i negri";
i capelluti "comunisti" dei centri sociali;
tre paracadutisti delle Folgore nati al Sud;
un povero cristo con la maglia del Lecce; un tipo che mangiava un kebab;
un ragazzino maldestro nell'usare lo skateboard.

Pedina, "soldatino" - Raffaele - di una cerchia che, visitata dai poliziotti, disponeva di manganelli, pugnali, coltelli, un'accetta e di libri che negavano l'Olocausto, di bandiere con la croce uncinata, di foto di Hitler e Mussolini.

L'aula della II E, che Raffaele frequenta (o frequentava), è al di là dell'antico chiostro in fondo al corridoio. I compagni e le compagne di Raffaele hanno come il muso. In questi giorni i giornalisti, protestano, hanno manipolato le loro opinioni, le hanno rimaneggiate per creare uno sciocco sensazionalismo. Non vogliamo difendere Raffaele, dicono, perché quel che ha fatto è gravissimo e se ne deve assumere tutto il peso, ma se ci chiedete se fosse un mostro, allora no, noi dobbiamo rispondere che non lo era, che non si è mai comportato da mostro. Era in modo radicale di destra e discuteva con chi non lo era, o era di sinistra, senza aggressività. Si è rifiutato di entrare in sinagoga, ma siamo abbastanza certi che, se avesse avuto un compagno di banco ebreo, non lo avrebbe maltrattato o deriso a scuola, dove il suo comportamento è stato sempre corretto.

Questo vuol dire, chiedono, assolvere Raffaele? Vuol dire raccontare, dicono, quel che sappiamo di lui.

Che non era tutto.

Purtroppo.


Accanto alla fontana senz'acqua del chiostro, Giulia Tombari e Simone D'Ascola provano a ragionare - ancora una volta, in questi giorni - su quei perché.

Come è potuto accadere a un loro compagno di scuola?

Giulia è minuta, nervosa, stanca. Dice parole secche e sincere.

Le accompagna con un gesto.

Indica il grande arco che dà sulla strada.

"Qui non c'è spazio per l'ignoranza che produce l'ottusa violenza senza scopo di Raffaele. Raffaele è stato travolto da quel che c'è là fuori, oltre quel cancello. Se un responsabile e una responsabilità si deve cercare, va trovata non in questo liceo, ma nella città. In quella Verona dove può capitare - e capita spesso - che si senta dire in autobus "non siedo qui, accanto a questo negro" e nessuno che, intorno, disapprovi o censuri quelle parole... Magari chi le ascolta, non oserebbe mai pronunciarle, ma le giustifica".

Simone è alto, allampanato, meno disinvolto di Giulia. Come Giulia, ha idee lucide e asciutte.

"In questa storia, si usano le parole per nascondere quel che è accaduto e ancora può accadere. Si dice: Raffaele era un bullo. Non lo era. Si dice: è un delinquente. Non lo era. Si dice: è solo una mela marcia, è un caso isolato. È falso che sia la sola mela marcia del cesto, il caso non è isolato ma addirittura, nella sua assurdità, ordinario.

Si dice: la politica non c'entra. E invece, c'entra, eccome, se politica è l'odio per il diverso, se politica è un'ideologia diffusa là fuori - anche Simone indica l'arco, il cancello, la strada - che legittima chi vuole liberarsi di chi non è uguale a te, per colore della pelle, per convinzioni, per religione, per la lunghezza dei capelli.

Tutto questo ha un nome: razzismo, xenofobia.

Se si usano le parole appropriate, le ragioni della morte di Nicola - e di quel ha combinato Raffaele con i suoi amici - saranno evidenti. È quel che dovreste fare: chiamare le cose con il proprio nome".

Chiamare le cose con il loro nome. È naturale pensare che sia un buon consiglio mentre si risale via Massalongo e poi corso Santa Anastasia verso Piazza Erbe. Come appare necessario rimettere insieme la realtà di un corpo sociale che solitamente si offre frammentata, sconnessa, quasi in penombra, occultata da parole accortamente ambigue.

Chiamare le cose con il loro nome, dunque.

Le violenze e i pestaggi nel cuore di Verona sono comuni e ritualizzati.

Piazza Viviani, via Mazzini, Veronetta, Volto San Luca, Corso Cavour, piazza Erbe ne sono state le scene negli ultimi mesi.

Puoi essere picchiato per un nonnulla.

Puoi prendere una bottigliata in testa per un amen.

Non importa la ragione occasionale.

Non è quello che conta. Non è per lo spino rifiutato che muore Nicola.

Nicola muore, dicono, "perché ha il codino", perché dunque è diverso, perché "non è conforme" e gli (improvvisati o professionali) addetti al futuro della città e alla custodia del suo passato e delle sue risorse escludono i diversi:

"diverso - dice il procuratore Guido Papalia - è non solo il diverso per razza, ma diverso perché si comporta il mondo diverso; pensa diversamente; ha un atteggiamento diverso; si veste in modo diverso e quindi non può convivere nel centro della città che i razzisti vogliono chiusa ai diversi".

In uno stato di smarrimento sociale, si radunano per difendersi le persone spaventate - la paura è coltivata con sapienza a Verona che molto ha faticato per raggiungere il benessere di oggi. Passano all'azione in nome di "un'identità minacciata". Identità, insegna Zygmunt Bauman, è un concetto agonistico.

È come un grido di battaglia.

Fragile e perversamente "coraggioso", Raffaele sente quel grido, lasciata l'aula del "Maffei" e le fatiche democratiche di "maffeiano".

Lo sente allo stadio dove impiccano il fantoccio di un calciatore "negro".

Lo ascolta forte nella propaganda dei "nazistoni" del "Blocco studentesco". Lo intende nello stile di vita dei suoi compagni di bevute e di scorribande notturne tra le stradine della città.

Afferra quel sentimento nella pianificazione del prossimo pestaggio, nelle risate, nella soddisfazione che segue.

Raffaele avverte soprattutto che quel che fa, quel che pensa è condiviso perché in città c'è un sentimento che non lo biasima e non lo biasimerà. Hanno ragione Giulia e Simone.

È "politico" tutto questo? Quale ipocrita può negarlo: certo che lo è.

E non vuol dire che ci sia un partito politico, una fazione di un partito politico, un gruppuscolo che organizza o programma quelle violenze.

Vuol dire che c'è a Verona una "cultura" dell'esclusione che irrigidisce e sorveglia il confine tra "noi" e "loro" e "loro" diventano anche quei veronesi - moltissimi, e tra i moltissimi Nicola - che rifiutano o non avvertono il "potere seduttivo" di quell'"appartenenza".

Chiamare le cose con il loro nome.

È difficile contestare che il sindaco di Verona, Flavio Tosi, alimenti la "naturalezza" di quel grido di battaglia "identitario". Che diffonda il presupposto che "si appartiene per effetto della nascita".

Non per altro, qualsiasi cosa tu sia e faccia. Fulvio Tosi non è un fascista.

È un leghista che ama i fascisti, li coccola, li asseconda, forse cinicamente se ne serve. Oggi che la tragedia si è consumata, è evasivo, a volte frivolo, a volte ringhioso quando gli si ricorda che appena in dicembre ha sfilato accanto a nazisti del Veneto Fronte Skinheads; che appena qualche anno fa (11 settembre 2005) offrì le sue parole solidali - con una visita in carcere - a cinque giovani fascisti che avevano massacrato e accoltellato due ragazzi di sinistra, frequentatori di un centro sociale.

Tosi ha grandi ambizioni politiche (sarà il nuovo governatore del Veneto nel 2010?) e questa storia tragica, da cui non riesce a uscire senza danno pubblico o con un alleato in meno, può azzopparlo.

L'opposizione gli ha chiesto che si scusi di quelle spensieratezze. Tosi non ha trovato ancora la forza di farlo.

Chiamare le cose con il proprio nome. Verona - città straordinariamente generosa nella solidarietà e nel volontariato - assiste al suo incrudelimento distratta, indifferente, senza rimorso o colpa. Guarda da un'altra parte per non vedere, per non vedersi, per non interrogarsi.

Come il vescovo, monsignor Giuseppe Zenti. Scrive ai giovani della città. Immagina di inviare sms per conto di Nicola. Scrive: "Abbiate fiducia nelle grandi vette. Valorizzate i giorni della giovinezza. Fatevi onore. Fateci vedere quanto valete. Realizzate una vita di grande qualità, degna dell'essere giovani".

Come se esistessero soltanto le scelte personali e non anche le responsabilità collettive, i modelli culturali, i quadri pubblici, l'assenza della benché minima opera di manutenzione sociale (senso civico, legalità).

Come se Nicola e Raffaele non fossero caduti su quella "trincea profonda e invalicabile scavata in città tra il "fuori" e il "dentro" di un territorio e di una comunità".

Al portone del Bra, ricorda Francesco Butturini, è scolpita una frase dell'Amleto: "Non c'è mondo, fuori di questa città".

C'è a Verona chi sembra crederlo per davvero.

Raffaele lo ha creduto.

Troppo facile ora dirlo solo un delinquente.

Troppo ingiusto dire, la morte di Nicola, "un caso isolato".

martedì 6 maggio 2008

Cervello...fino

Bell'esordio di Gianfranco Fini da presidente della camera:è molto più grave l'aver bruciato la bandiera israeliana durante il corteo del primo maggio a Torino rispetto all'aomicidio del giovane veronese pestato a morte da un gruppuscolo di neonazisti veneti.

Questa è la terza carica dello Stato, le radici son quelle, fascista nell'anima.

Ma con che coraggio si possono paragonare due avvenimenti così diversi? Un barbaro omicidio, una vita spezzata in quel modo di fronte ad una pur vergognosa contestazione?

Perchè questa frase?

Ma perchè Verona pullula di sgherri fascistelli contigui ad un universo che lega nostalgici nazisti, leghisti razzisti (il sindaco Tosi fu condannato per istigazione all'odio razziale), ambienti dell'integralismo cattolico e rottami di An che flirtano con questi rifiuti della storia allo scopo di conservare un'egemonia culturale ed ideologica su una città che pure è ai primi posti per il numero di persone che fanno volontariato.

Una città dove qualche anno fa furoreggiò Ludwig, una banda di neonazisti che arrivò ad uccidere uan quindicina di persone quali barboni, tossicodipendenti, gay, comunisti e sacerdoti, tutta gente che non rappresentava il loro ideale di superuomini.

Al di là del facile sociologismo sulla città scaligera resta il mio personale disprezzo per Fini che, in maniera anche indelicata, mette a paragone nazisti ed ebrei, carnefici e vittime, al solo scopo di lustrare il pelo alla comunità ebraica.

Resta da dire che il razzismo e l'antisemitismo alberganti da tempo nella sinistra, radicale e non solo, hanno troavto dei validi maestri.

In quel partito del quale Fini è stato segretario sino a stamattina.

Come dire, il bue che dice cornuto all'asino...

lunedì 5 maggio 2008

E Mi Viene Da Pensare

Ripensando ad un concerto a Fiesta, estate 2004, i maestri del progressive italiano, assieme alla Pfm, il mitico Banco del Mutuo Soccorso.

Colonna sonora azzeccata per una riflessione a voce alta di Gabriele Romagnoli, nel suo blog dal sito di Repubblica:

"Ho guardato le prime immagini del nuovo Parlamento, la cosiddetta Camera dei rappresentanti, e ho capito che non sono rappresentato.

Sono sfilati gli eletti della destra. E che quelli non mi rappresentassero lo sapevo già.

Il dramma sono stati i rappresentanti della parte che ho votato.
Come direbbe uno di loro: che c'azzecco?

Risposta: niente.

Io non ce l'ho con i "professionisti della politica". Li vorrei, dei professionisti, invece di questi dilettanti.
Gente che sa fare in politica quello che io e altri non saremmo capaci, tipo vincere un'elezione e governare.

Vorrei qualcuno di cui pensare che è più abile e persino più decente di me. Quanto meno sia altrettanto onesto e leale. Minimo.

Non mi rappresenta la presunzione intellettuale, politica e alla fine anche umana di Veltroni (da solo, da solo dove vai?), del gruppo dirigente costruito a sua immagine e somiglianza, gente che scambia Roma per il proprio condominio al quartiere Trieste e l'Italia per quella che gli racconta il loro giornalista di fiducia senza mai muoversi da casa.

Non mi rappresenta Marianna Madia a 27 anni, non mi rappresenta Umberto Veronesi a 83, stavano meglio dove stavano, al centro studi e in ospedale.

Al loro posto, quelli sì mi avrebbero rappresentato, uomini e donne tra i 35 e i 50 che da almeno 15 anni si occupano di amministrazione pubblica, assistenza sociale, funzione normativa.

Non la crema della società civile, ma quello che sta sotto e la regge.

Non mi importa che scrivano libri, quello lo so fare anch'io. Vorrei sapessero come far passare leggi migliori, che le avessero in testa, le leggi migliori.

Non mi rappresenta quella schiuma di ingrati che ha voltato le spalle all'unico che li ha fatti vincere (Prodi), sputato su un governo assurdo nella composizione ma assolutamente decente nelle scelte (che ci provino questi altri a risanare l'economia di un Paese residuale quando quella globale affonda, o almeno che combattano l'evasione fiscale, sì, ciao).

Non sono rappresentato da questo pensiero politicamente debole, che rinuncia alla sua bandiera per avvolgersi in una camicia, da questi teorici del poco (per quelli del nulla, massimo rispetto), da questi tardo borghesi che hanno comprato le analisi del presente da un pizzicagnolo orbo, un tanto al chilo e pesi pure la carta, che ce n'è tanta, scambiandole per lucide visioni.

Non sono rappresentato dai figli di qualcuno che c'era già stato, dai capicosca di clan intellettuali così minuscoli che non hanno più bisogno di salotti, bastano gli sgabuzzini a riunirli.

Hanno fatto tacere le voci migliori che avevano in quel coro, barattato la virtù con l'opportunità e, quel che è peggio, non hanno capito, neanche adesso.

Chiunque di loro leggesse queste righe per sbaglio penserebbe: questo è un isolato, non rappresenta nessuno.

Guardatevi allo specchio: voi, chi state rappresentando?

Voi, che cosa mi rappresentate?"

sabato 3 maggio 2008

Long Walk Home


Il trio delle meraviglie sta tornando.

Totti, Vucinic, Mancini?
No.

Eto'o, Messi, Ronaldinho?
No, no.

Si vola più in alto, molto,molto più in alto.

Ma di morto, come dicono a Firenze.

Buon boss va'...

venerdì 2 maggio 2008

Come le viole

Ieri pomeriggio la curiosità mi ha portato ad andare ad ascoltare la prima parte del Concertone di San Giovanni.

Inossidabile Pelù, fisico asciutto, fiato da vendere, una presenza da frontman tutta sua ed una splendida dedica della sua esibizione a Enrico Berlinguer. Notevole poi la sua versione di Revolution dei Beatles.

La piazza si è poi scatenata con una tarantella leggiadra di Enzo Avitabile che assieme a Manu Dibango ci ha portato a riscoprire le nostre radici mediterranee.

Bravissimi i linea 77 con un rock veramente duro ma hard hard hard, sopravvoliamo poi su un Raiz che ha rovinato Ma che colpa abbiamo noi dei Rokes e su Claudio Santamaria che ha avuto l'ardire, assieme a Zampaglione, di avvicinarsi a quella perla che è la beatlesiana While my guitar gently weeps.

Pietà...


Chi ha fatto il mattatore, almeno stando al mio personalissimo cartellino, è stato Giuliano Palma che con i suoi Bluebaters ha fatto muovere la piazza a ritmo di ska su tre successi italiani anni '70: Tutta mia la città, Testarda io e Messico e nuvole.

Chissà i ragazzi la sorpresa nel sapere che stavano dimenando i loro corpi con successi rispettivamente dell'Equipe 84, di Iva Zanicchi (scritta da Cristiano Malgioglio...) e di Enzo Jannacci (parole e musica di Paolo Conte.

Segno che davvero la buona musica non ha età e onore quindi all'ex voce solista dei Casino Royale che è andato oltre la solita moda delle cover. Le sue sono nuove canzoni, reinterpretate con vero talento.

Il pezzo che vi offro, reinterpretato, è del 1972, e lo cantava Peppino Gagliardi.

E scusate se è poco...

giovedì 1 maggio 2008

il figlio del re

Non potrò mai dimenticare quando ascoltai questa canzone per la prima volta.

Domenica mattina, maggio 1997, la maturità davanti al mio percorso di vita, sole alla grande, Radio Onda Rossa a palla che tra un Bennato ed un Bertoli d'annata inserisce improvvisamente un brano che mi strega.

Tipica melodia cantautorale anni'70, potrebbe richiamare un qualunque pezzo di Guccini, ed un testo stranissimo, quasi evocativo.

Lui si chiama Piero Marras, un poeta-cantautore sardo che crea una ballata a cavallo tra Grazia Deledda, Sebastiano Satta e Marcello Fois.

Dalla melodia sembra veramente di immaginare davvero le canne al vento, la dura montagna, le storie di banditismo e un mare mosso che sembra richiamare folletti e storie nordiche.
Questa è una cover, spero che qualcuno posti presto la versione originale, ma molto vicina all'esecuzione da studio.

Una canzone che racconta la fierezza, l'orgoglio delle proprie radici, il miglior augurio per un primo maggio di lotta e di riflessione.

Quella lotta e quell'attaccamento alle radici mostrato ieri sera da Frankie Lampard, centrocampista del Chelsea, autore di un goal su rigore che ha portato i blues in finale, a 5 giorni dalla morte di sua madre. Il goal e poi un pianto, lunghissimo, liberatorio e una salva di baci alla tribuna verso il padre.

E a fine partita l'allenatore del Chelsea, Avrham Grant, israeliano ed ebreo, in ginocchio, sfinito.

Oggi sarà ad Auschwitz per ricordare che quello che è stato non sia più.