martedì 16 ottobre 2007

LA VITA AGRA


Ho avuto la fortuna, nella mia vita, di aver letto tanti libri e rimango però sempre sorpreso quando ne leggo uno che mi lascia belle sensazioni.
Il merito va tutto a Luciano Bianciardi ed alla sua "La vita agra"(1962), un volume che quando uscì scatenò un pandemonio.
Occhio alla data, pieno boom economico, paese ottimista, vitale, convinto che le penurie del dopoguerra fossero finite per sempre, la Dc inaugurava la strada verso il centrosinistra con le nazionalizzazioni dell'energia elettrica e la riforma della scuola media unica. Insomma, ottimismo a tutta callara, via verso lo sviluppo, al bando fame e stenti.
Tutto giusto ma si dà il caso che Bianciardi non la pensasse proprio così ma chi era Bianciardi?
Luciano Bianciardi era un intellettuale, uno scrittore, un professore di liceo che, vivendo a Grosseto dal 1922, da quando ci era nato, si era stancato e colse l'occasione di una chiamata alla neonata editrice Feltrinelli per salutare la Maremma e trasferirsi a Milano.
Lasciata la moglie ed una figlia si trasferisce nella capitale lombarda ma presto il sogno si trasforma in incubo. Bianciardi si sente disadattato, odia quella vita a cento all'ora, le falsità delle case editrici, la vita da poveraccio in giro per pensioni luride, in trattorie dove potevi trovare uno scarafaggio nell'insalata assieme ai pittori di Brera.
Il licenziamento dalla Feltrinelli, la scelta di tradurre in casa (sua la versione pirotecnica di "Tropico del cancro" e "Tropico del capricorno" di Henry Miller) in modo da conservare una certa autonomia. L'incontro con Maria, giovane militante comunista romana, il vivere con pochi soldi, tradurre assieme, dormire, scopare, arrivare al 27.
E intorno a loro questi milanesi incazzati, senza amore, sempre di fretta, aridi, che sui tram affollati non si parlano, si evitano e anzi Bianciardi si stupirà del fatto che le persone li aspettino anche una fermata prima del capolinea.
Stanco, stufo, Bianciardi scriverà quella che chiamerà" la storia di un'incazzatura", un libro contro Milano, "la storia di una nevrosi, la cartella clinica di un'ostrica malata che però non riesce nemmeno a fabbricare la perla".
E diventerà un caso, pochissime stroncature, tirature altissime.
Ma Luciano Bianciardi aveva cominciato a morire, a bere, ad ammalarsi di cirrosi epatica ed una depressione latente lo porterà a spegnersi nel 1971, solo, a Milano. Maria se ne era andata, con il figlio Marcello, stanca di un uomo del genere.
Lui aveva scritto altri romanzi, collaborava alle pagine culturali de "Il Giorno", fu chiamato da Gianni Brera a curare la posta del "Guerin Sportivo", critico televisivo per "Abc", una delle prime riviste porno soft.
Il libro: un diluvio, un profluvio di parole, di invenzioni linguistiche, di malinconia, di gioia, di odio viscerale per Milano e di rimpianto per la Grosseto natia. Una critica dura, sferzante e senza ritorno del boom economico, di tutte le convenzioni, le falsità di una società nata vecchia che con una botta di cipria, da vera cocotte provinciale, cerca di mostrare quello che non è.
Una Milano che stava cominciando a diventare grande, che sotterrava i vecchi navigli, che spianava i quartieri operai, popolari, le case di ringhiera per costruire grattacieli, per giocare ad essere la New York italiana. Di lì a pochi anni ci sarà la calata dei socialisti craxiani che, stanchi del sol dell'avvenire, preferiranno il verde dei bigliettoni, tangenti, feste, il nulla.
E Milano, parole e musica di Ivano Fossati, diverrà "livida e sprofondata per sua stessa mano".
Solo che 21 anni prima Bianciardi l'aveva già capito chiudendo gli occhi in una casa vuota del capoluogo lombardo, al buio, circondato da bottiglie, terribilmente e per sempre vuote.
Per saperne di più, Pino Corrias, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano, Baldini & Castoldi, Milano, 1993

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