venerdì 28 novembre 2008
GENOVA HA I GIORNI TUTTI UGUALI
Da "La Repubblica" di oggi, scrive Giuseppe D'Avanzo:
"L'asimmetria è manifesta.
Se partecipo a una manifestazione di piazza e pochi o molti violenti scatenano una guerriglia urbana, anch'io, che pacificamente ho aderito all'iniziativa, sono responsabile per la polizia di quella guerriglia.
Se, al contrario, ho addosso una divisa di poliziotto, il criterio che stringe in un solo nodo, con le stesse responsabilità, e i pacifici e i violenti non vale più.
Anche se sono in servizio in una caserma dove si torturano gli arrestati, anche se sono nella stessa stanza a pochi metri da quel castigo ingiusto, non mi può essere attribuita la responsabilità dei trattamenti inumani inflitti da altri.
No, occorre che ogni gesto degradante (naturalmente provato) abbia un suo responsabile diretto (naturalmente identificato in modo inequivocabile).
Una fortunata coincidenza ci mette sotto gli occhi, nelle stesse ore, gli esiti del nuovo "diritto diseguale".
A Roma il procuratore generale della Cassazione definisce "deviata" una cultura poliziesca che, identificando una persona che partecipa a una manifestazione, le attribuisce "tutti i reati commessi durante la manifestazione" (è accaduto l'11 marzo 2006 a Milano, in Corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista).
A Genova diventano pubbliche le motivazioni per le torture della caserma di polizia di Bolzaneto durante i giorni del G8, tra il 20 e 22 luglio 2001. E si legge che - non c'è dubbio - le violenze, le umiliazioni consumate in quella caserma e "pienamente provate avrebbero potuto ricomprendersi nella nozione di "tortura" delle convenzioni internazionali". Ma in Italia quel reato non c'è e allora bisogna accontentarsi di descrivere quelle prepotenze come "condotte inumane e degradanti".
Sono comportamenti "che hanno tradito il giuramento di fedeltà alle leggi della Repubblica italiana e alla Carta Costituzionale, inferto un vulnus gravissimo, oltre a coloro che ne sono stati vittime, anche alla dignità delle forze della polizia di Stato e della polizia penitenziaria e alla fiducia della quale detti Corpi devono godere nella comunità dei cittadini". Epperò, dall'accertamento delle condotte vessatorie "non discende automaticamente che, di quelle condotte, debbano necessariamente rispondere tutti gli imputati". Ne risponderanno individualmente soltanto i responsabili diretti.
"Purtroppo la maggior parte di coloro che si sono resi direttamente responsabili delle vessazioni risultate provate in dibattimento è rimasta ignota. Scrivono i giudici: il limite di questo processo è rappresentato dal fatto che quei nomi, quelle facce, gli aguzzini non sono saltati fuori "per difficoltà oggettive, non ultima delle quali la scarsa collaborazione delle Forze di Polizia, originata, forse, da un malinteso "spirito di corpo"".
Non c'è dubbio che il procuratore generale della Cassazione e i giudici di Genova abbiano ragione: la responsabilità penale deve essere personale. C'è però una differenza non trascurabile: da un poliziotto ci si attende una leale collaborazione nell'accertamento dei fatti, non "spirito di corpo", non complicità, non omertà. Quei poliziotti, che hanno violato la Costituzione nelle vie di Genova, alla Diaz, a Bolzaneto avrebbero dovuto essere trascinati dinanzi al giudice dai loro stessi commilitoni.
Al contrario, la storia dei processi di Genova è una parabola sempre uguale di connivenze, silenzi, reticenze, favoreggiamento, fughe dal processo come quella promossa proprio in questi giorni da un questore accusato di falsa testimonianza con l'allora capo della polizia Gianni De Gennaro.
Se la polizia vuole finalmente chiudere con la verità una pagina di vergogna della sua storia, come ha promesso di fare il capo della polizia Antonio Manganelli, non ha che da rendere concreto il suo impegno accompagnandolo con l'agenda ragionevolmente proposta dal "Comitato verità e giustizia per Genova". Scuse formali dei vertici dello Stato alle vittime degli abusi e a tutti i cittadini; collocazione immediata dei condannati a ruoli che non comportino una relazione diretta con i cittadini; massima collaborazione con la magistratura per le inchieste ancora aperte.
Da parte sua, il Parlamento discuta al più presto proposte di legge di "riforma" delle forze di polizia: l'obbligo per gli agenti in servizio di ordine pubblico di indossare codici d'identificazione; l'istituzione di un organismo indipendente cui denunciare eventuali abusi delle forze di sicurezza. Sono strumenti diffusi in molti paesi europei.
Si può concordare che "l'esperienza di Genova dimostra che il nostro paese ne ha bisogno".
giovedì 27 novembre 2008
FATALITA'...
martedì 18 novembre 2008
ASPETTA E SPEER
lunedì 10 novembre 2008
GENOVA, E' UN'IDEA COME UN'ALTRA
Così scrive Giuseppe D'Avanzo su "La Repubblica" di oggi:
"Uno Stato che vessa e maltratta le persone private della libertà non è uno Stato democratico.
Una polizia che usa la forza non per impedire reati, ma per commetterne, non può essere considerata "forza dell'ordine".
Fatti di questo genere distruggono la credibilità delle istituzioni più di tanti insuccessi dei poteri pubblici".
Valerio Onida, giudice emerito della Corte Costituzionale.
Sono parole che bisogna tenere a mente ora che il processo per le violenze della polizia nella scuola "Diaz", durante i giorni del G8 di Genova, è prossimo alla sentenza.
Il 21 luglio del 2001 è il giorno più tragico del G8 di Genova. È morto Carlo Giuliani in piazza Alimonda in una città distrutta dai black bloc che riescono inspiegabilmente a colpire indisturbati e a dileguarsi senza patemi. Per tutto il giorno, Genova è insanguinata dai pestaggi della polizia, dei carabinieri, dei "gruppi scelti" della guardia di finanza contro cittadini inermi, donne, ragazzi, anche anziani, spesso con le braccia alzate verso il cielo e sulla bocca un sorriso.
Ora, più o meno, è mezzanotte.
Mark Covell, 33 anni, inglese, giornalista di Indymedia.uk, ozia davanti al cancello della scuola Diaz, diventato un dormitorio dopo che i campeggi sono stati abbandonati per la pioggia.
Covell si accorge che la polizia sta "chiudendo" la strada. Avverte subito il pericolo.
Estrae l'accredito stampa, lo mostra, lo agita. I poliziotti, che lo raggiungono per primi (sono della Celere, del VII nucleo antisommossa del Reparto Mobile di Roma), lo colpiscono con i "tonfa" o "telescopic baton", più che un manganello un'arma tradizionale delle arti marziali: rigido e non di caucciù, a forma di croce: "può uccidere", se ne vanta chi lo usa. Colpiscono Mark senza motivo. Come, senza ragione, un altro poliziotto con lo scudo lo schiaccia subito dopo contro il cancello mentre un altro, come un indemoniato, lo picchia alle costole. Gli gridano in inglese: "You are black bloc, we kill black bloc" ("Tu sei un black, noi ti uccidiamo").
Covell cade finalmente a terra.
E' semisvenuto, in posizione fetale. Potrebbe bastare anche se fosse un incubo, ma per Mark il calvario non è ancora finito. Tutti i "celerini" che corrono verso la scuola lo colpiscono a terra con calci (il pestaggio di Covell è ripreso da una videocamera). Covell rimarrà, esanime, circondato dall'indifferenza, in quell'angolo di via Cesare Battisti, al quartiere di Albaro, per oltre venti minuti. Ha una grave emorragia interna, un polmone perforato, il polso spezzato, otto fratture alle costole, dieci denti in meno. Quando si sveglia in ospedale, viene arrestato per resistenza aggravata a pubblico ufficiale, concorso in detenzione di arma da guerra e associazione a delinquere. (E' ancora aperta l'indagine per individuare i poliziotti che lo hanno quasi ucciso. L'accusa: tentato omicidio).
Distruggere.
Annientare.
E' con questo obiettivo che, dopo aver abbattuto con un blindato Magnum il cancello, le prime tre squadre del Reparto Mobile di Roma (trenta uomini) invadono, a testuggine, il pianoterra della scuola.
Arnaldo Cestaro, "un vecchietto", è sulla destra dell'ingresso.
Viene travolto.
Lo gettano contro il muro.
Lo picchiano con i "tonfa".
Gli spezzano un braccio e una gamba.
Ora ci sono urla e baccano. Nella palestra, ai piani superiori ragazzi e ragazze - anche chi si è già infilato nel sacco al pelo per dormire - comprendono che cosa sta accadendo. Tutti raccolgono le loro cose, il bagaglio leggero che si portano dietro da giorni.
Si sistemano con le spalle al muro; chi in ginocchio; chi in piedi; tutti con le braccia alzate in segno di resa; chi ha voglia di un'ultima "provocazione" mostra al più indice e medio a V. Daniel Mc Quillan, quando vede le divise, si alza in piedi e dice: "Noi siamo pacifici, niente violenza".
"Come se fossero un branco di cani impazziti, sono su di lui in un istante e lo colpiscono, lo colpiscono, lo colpiscono?", dicono i testimoni.
La furia dei celerini si scatena contro chiunque e dovunque, irragionevolmente, con furore (si vede uno che mena colpi con una specie di mazza da baseball). Melanie Jonach racconterà di essere svenuta subito al primo colpo che la raggiunge alla testa. Gli altri, che vedono la bastonatura inflittale, ricordano i suoi occhi aperti ma incrociati, le contrazioni spastiche del corpo. Anche in queste condizioni, continuano a picchiarla e a prenderla a calci.
Un ultimo calcio sbatte la sua testa contro un armadio: ora è "aperta" come un melone. Il comandante del VII nucleo, a quel punto, grida "Basta!". Raggiunge la ragazza. "La tocca con la punta dello stivale. Melanie non dà segni di vita e quello ordina che venga chiamata un'autoambulanza". (Melanie Jonach ci arriverà in codice rosso con una frattura cranica nella regione temporale sinistra). Nicola Doherty ancora piange in aula mentre racconta: "Hanno cominciato a picchiarci immediatamente. C'era gente che piangeva e implorava i poliziotti di fermarsi. Anch'io piangevo e chiedevo che la smettessero. Uno mi è venuto vicino e con fare dolce mi ha detto "Poverina!" e mi ha colpito ancora. Sembrava che ci odiassero. Ho visto un poliziotto con un coltello in mano, bloccava le ragazze, i ragazzi e tagliava una ciocca di capelli con il coltello".
Voleva il suo personale trofeo di guerra. Altri continuano a gridare, dopo aver picchiato duro: "Dì, che sei una merda". Mentre colpiscono gridano: "Frocio!", "Comunista!", "Volevate scherzare con la polizia?", "Nessuno sa che siamo qui e ora vi ammazziamo tutti!".
Lena Zulkhe, colpita alle spalle e alla testa, cade subito. Le danno calci alla schiena, alle gambe, tra le gambe. "Mentre picchiavano, ho avuto la sensazione che si divertissero". La trascinano per le scale afferrandola per i capelli e tenendola a faccia in giù. Continuano a picchiarla mentre cade. La rovesciano quasi di peso verso il pianoterra. "Non vedevo niente, soltanto macchie nere. Credo di essere per un attimo svenuta. Ricordo soltanto - ma quanto tempo era passato? - che sono stata gettata su altre due persone, non si sono mossi e io gli ho chiesto se erano vivi. Non hanno risposto, sono stata sdraiata sopra di loro e non riuscivo a muovermi e mi sono accorta che avevo sangue sulla faccia, il braccio destro era inclinato e non riuscivo a muoverlo mentre il sinistro si muoveva ma non ero più in grado di controllarlo. Avevo tantissima paura e pensavo che sicuramente mi avrebbero ammazzata".
Dei 93 ospiti della "Diaz" arrestati, 82 sono feriti, 63 ricoverati ospedale (tre, le prognosi riservate), 20 subiscono fratture ossee (alle mani e alle costole soprattutto, e poi alla mandibola, agli zigomi, al setto nasale, al cranio).
Che cosa ha provocato questa violenza rabbiosa e omicida?
Come è stata possibile pensarla, organizzarla, realizzarla.
Il 22 luglio, il portavoce del capo della polizia convoca una conferenza stampa e distribuisce un breve comunicato che vale la pena di ricordare per intero: "Anche a seguito di violenze commesse contro pattuglie della Polizia di Stato nella serata di ieri in via Cesare Battisti, si è deciso, previa informazione all'autorità giudiziaria, di procedere a perquisizione della scuola Diaz che ospitava numerosi giovani tra i quali quelli che avevano bersagliato le pattuglie con lancio di bottiglie e pietre. Nella scuola Diaz sono stati trovati 92 giovani, in gran parte di nazionalità straniera, dei quali 61 con evidenti e pregresse contusioni e ferite. In vari locali dello stabile sono stati sequestrati armi, oggetti da offesa ed altro materiale che ricollegano il gruppo dei giovani in questione ai disordini e alle violenze scatenate dai Black Bloc a Genova nei giorni 20 e 21. Tutti i 92 giovani sono stati tratti in arresto per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e saccheggio e detenzione di bottiglie molotov. All'atto dell'irruzione uno degli occupanti ha colpito con un coltello un agente di Polizia che non ha riportato lesioni perché protetto da un corpetto. Tutti i feriti sono stati condotti per le cure in ospedali cittadini".
Il portavoce mostra anche le due molotov che sarebbero state trovate nell'ingresso della scuola, "nella disponibilità degli occupanti".
Il processo di Genova ha dimostrato ragionevolmente (e spesso con la qualità della certezza) che nessuna delle circostanze descritte dal portavoce del capo della polizia (capo della polizia era all'epoca Gianni De Gennaro) corrisponde al vero.
Quelle accuse sono false, quelle ragioni sono inventate di sana pianta.
Si dice che l'assalto (la "perquisizione") fu organizzato dopo che un corteo di auto e blindati della polizia era stato, poco prima della mezzanotte, assalito in via Cesare Battisti con pietre, bottiglie e bastoni.
Il processo ha dimostrato che non c'è stata nessuna pattuglia aggredita.
Si dice che gli ospiti della Diaz fossero già feriti, quindi coinvolti negli scontri in città. Nessuno dei 93 arrestati era ferito prima di essere bastonato dai "celerini". Poliziotti, comandanti, dirigenti hanno riferito che, mentre entravano nella scuola, c'è stata contro di loro una sassaiola e addirittura il lancio di un maglio spaccapietre. I filmati hanno dimostrato che non fu lanciata alcun sasso e nessun maglio. Il comandante del Reparto Mobile di Roma ha scritto in un verbale che ci fu una vigorosa resistenza da parte di "alcuni degli occupanti, armati di spranghe, bastoni e quant'altro". Assicura che nella scuola (entra tra i primi) sono stati "abbandonati a terra, numerosi e vari attrezzi atti ad offendere, tipo bastoni, catene e anche un grosso maglio".
Nella scuola non c'è stata alcuna colluttazione, nessuna resistenza, soltanto un pestaggio.
Nessuno degli occupanti ha tentato di uccidere con una coltellata il poliziotto Massimo Nucera.
Due perizie dei carabinieri del Ris hanno smentito che lo sbrego nel suo corpetto possa essere il frutto di una coltellata.
Nella scuola non c'erano molotov.
Come ha testimoniato il vicequestore che le ha sequestrate, quelle due molotov furono ritrovate da lui non nella scuola la notte del 22 luglio, ma sul lungomare di Corso Italia nel pomeriggio del giorno precedente.
La prova falsa, manipolata, è stata inspiegabilmente distrutta, durante il processo, nella questura di Genova.
In settimana il tribunale deciderà delle responsabilità personali dei 29 imputati (poliziotti, dirigenti, comandanti, alti funzionari della polizia di Stato) accusati di falso ideologico, abuso di ufficio, arresto illegale e calunnia.
Quel che qui conta dire è che la responsabilità non penale, ma tecnico-politica di chi, impotente a fronteggiare i black bloc, si è abbandonato (per vendetta? per frustrazione? con quali ordini e di chi?) a pestaggi ingiustificati e indiscriminati, non può e non deve essere liquidata da questa sentenza.
Centinaia di agenti, sottufficiali, ufficiali, dirigenti di polizia, funzionari del Dipartimento di pubblica sicurezza hanno mentito durante le indagini e al processo.
E chi non ha mentito, ha negato, taciuto o dissimulato quel che ha visto e saputo.
Dell'assalto alla "Diaz" non inquieta soltanto il massacro di 93 cittadini inermi diventati in una notte "criminali" a cui non si riconosce alcuna garanzia e diritto.
Quel che angoscia è anche questo silenzio arrogante, l'omertà indecorosa che manipola prove;
costruisce a tavolino colpevoli;
nasconde le responsabilità;
sfida, senza alcuna lealtà istituzionale, il potere destinato ad accertare i fatti.
Le apprensioni di sette anni raddoppiano ora che, decreto dopo decreto, si fa avanti un "diritto di polizia".
Il Paese ha bisogno di sapere se il giuramento alla Costituzione delle forze dell'ordine non sia una impudente finzione.
Perché quel che è accaduto a Mark Covell e ai suoi 92 occasionali compagni di sventura rende chiaro, più di qualsiasi riflessione, come uno Stato che si presenta nelle vesti di sbirro e carnefice fa assai presto a diventare uno Stato criminale quando il dissidente, il non conforme, l'altro diventa un "nemico" da annientare".
domenica 2 novembre 2008
DETTO TRA NOI
mercoledì 22 ottobre 2008
OKKUPATO
Come si usa dire al commissariato o dai carabinieri, letto e sottoscritto.
Da "La Repubblica" di oggi, l'articolo di Carlo Bonini:
"Ora che è stata accesa la miccia, forse diventerà più difficile capire e distinguere.
E, magari, anche ricordare. Perché persino più che a Milano, Torino, Padova - laboratori storici dell'antagonismo - a Roma, i centri sociali sono stati e rimangono un pezzo significativo della sua storia culturale e politica.
A sinistra, come a destra.
Lo dicono i numeri (almeno una cinquantina le sigle).
Lo dice la geografia della loro distribuzione sul territorio.
Dalla periferia occidentale della città (Portuense, Laurentino, Boccea, Trullo), a quella orientale (Monte Sacro, Nomentano, Portonaccio).
Da Nord (Primavalle, Casalotti), a sud (Cinecittà, Tuscolano, Prenestino, Casilino).
Fino al cuore della città (Colle Oppio, Celio, Esquilino, san Lorenzo, Testaccio, Prati).
Lo dice soprattutto una storia cominciata quattordici anni fa quando i "centri" li contavi sulle dita di due mani e si chiamavano "Brancaleone", "Rialto", "Villaggio Globale". Era il 1994 e un giovanissimo Francesco Rutelli, neosindaco, firmava la delibera di "assegnazione degli spazi sociali".
A Roma, l'antagonismo, nelle sue forme politiche e culturali, diventava un luogo del paesaggio riconosciuto.
La "sinistra" e la "destra" sociali, eredi di una tradizione politica che si era storicamente formata non nella battaglia nelle fabbriche ma in quella per il diritto alla casa e dunque nelle occupazioni di immobili dismessi o semplicemente figli dell'abusivismo edilizio, dichiaravano la loro rinuncia a un progetto di conflitto violento e permanente.
In cambio, ne ottenevano tolleranza amministrativa per gli "spazi occupati di autogestione".
Luoghi di separazione in cui coltivare l'idea di "un altro mondo possibile". I neri di "Casa Pound" e "Foro 753" potevano lavorare affacciati sul Colosseo, mentre i rossi di "Brancaleone", "Rialto", "Villaggio Globale" diventavano da laboratorio teatrale, visivo, musicale "off-off", protagonisti della scena culturale partecipando ai bandi comunali per l'estate romana.
Accusata di "entrismo", di eccessiva contiguità con la politica istituzionale da molti centri del nord-est e del nord-ovest, l'esperienza romana, pur nelle sue differenze e diaspore interne, infilava un sentiero che non l'avrebbe mai ridotta o umiliata a "problema di ordine pubblico".
I "centri", con i loro concerti, le loro birrerie autogestite, i loro spazi di disobbedienza antiproibizionista, si moltiplicavano, costituendosi spesso come unici luoghi di aggregazione sul territorio. Ammortizzatori sociali, "sportelli unici" per immigrati.
I "centri" si facevano rete nei quartieri e "directory" on-line nell'offerta culturale della città. Come in un tamburino per cinema e teatri. Nuove occupazioni, dunque, e nuove sigle. "Astra" (Montesacro), "Esc atelier" (san Lorenzo), "Acrobax project" (all'ex cinodromo di viale Marconi). Solo per citarne alcune.
L'iconografia della birra e del "cannone", del cane da "punkabbestia", come ogni semplificazione, accarezzava solo la superficie di luoghi che, negli anni '90, nella dissoluzione dei partiti, erano rimasti i soli indirizzi riconoscibili della politica per due generazioni di liceali e universitari.
Non lo ignora la destra sociale di Storace e Bontempo.
Ne è consapevole Rifondazione Comunista.
Lo annusa "Forza Nuova" che apre un suo presidio in Prati.
Nunzio D'Erme è il primo consigliere comunale di Rifondazione espresso dai "Centri sociali". Scaricherà un camion di letame di fronte a Palazzo Grazioli, la residenza romana di Silvio Berlusconi, e perderà il treno per un seggio a Strasburgo. Ma la sua esperienza è il segno e in qualche modo l'approdo della via romana alla convivenza e al reciproco riconoscimento di mondi che parlano lingue diverse.
Dentro e fuori l'aula consiliare Giulio Cesare. E' il compromesso che consente a Veltroni sindaco di inaugurare le notti bianche mentre i centri espongono uno striscione che ricorda in Campidoglio "le notti bianche del precariato".
Di celebrare le iniziative per ricordare i Mattei, di intitolare una strada a Paolo Di Nella (attivista di destra ucciso a sprangate nel 1983), senza che questo incendi, al di là delle parole, l'area antagonista.
Di trovare un luogo ai neri di "Foro 753", costretti a lasciare il Celio per far posto a un asilo, in cambio di una mediazione continua con Enti Pubblici e privati che impedisca lo sgombero delle "occupazioni di sinistra".
I Centri, insomma, avrebbero continuato a parlare la loro lingua e non avrebbero abbandonato il cuore della loro battaglia politica.
Quella per l'emergenza degli alloggi.
Sullo scranno di D'Erme, nelle ultime elezioni comunali di aprile, sarebbe salito Andrea Alzetta, detto "Tarzan", di "Action".
A Monte Sacro si sarebbe tornato ad occupare.
Ieri, dopo 14 anni di assenza di conflitto di strada, lo sgombero dell'"Horus".
E le parole di un preoccupato prefetto di Roma, Carlo Mosca: "Non c'è nessun tipo di pianificazione. Si tratta di un provvedimento del magistrato e quindi siamo dovuti intervenire. In ogni caso, prima bisogna trovare delle soluzioni per sistemare tutte le persone che occupano".
Forse, la via romana all'antagonismo cominciata 14 anni fa non finirà nello spazio di un pomeriggio".
domenica 12 ottobre 2008
DIE ENDE
lunedì 6 ottobre 2008
NERO E NON SOLO
lunedì 22 settembre 2008
ITE MISSA EST?
Domenica sera, ore 19, chiesa parrocchiale di San Roberto Bellarmino.
Siamo in piazza Ungheria, luogo nodale dei Parioli e porta d'ingresso al quartiere. Dalla piazza si propagano le arterie che portano all'incantevole belvedere di piazza delle Muse ed allo zoo, passando per villa Taverna, residenza dell'ambasciatore statunitense a Roma.
La navata a sinistra è ancora vuota ma piano piano comincia a riempirsi di decine di giovani che, preso posto tra i banchi ed accompagnati dalle chitarre, cominciano ad intonare il canto d'ingresso nel momento stesso dell'entrata del sacerdote accompagnato dai ministranti.
Nulla di nuovo rispetto alle tante messe dei giovani che ogni domenica si possono ascoltare nelle parrocchie italiane ma vederla fa davvero uno strano effetto. Sono tempi nei quali è unanimente riconosciuto quanto le chiese italiane tendano a svuotarsi di fronte ad un aumento della scissione tra fede dichiarata e comportamenti personali e alla ricerca di diverse forme di spiritualità che portano a cercare dei succedanei. Siamo in un'epoca secolarizzata, i sociologi tendono a distinguere tra una secolarizzazione qualitativa (un'inesorabile perdita dell'importanza della religione nel discorso pubblico) ed una quantitativa (una diminuizione dei fedeli all'interno delle società moderne) tanto che per alcune frange della società si può addirittura parlare di scristianizzazione.
Eppure ad osservare quanto la chiesa sia normalmente piena in ogni ordine di posti ci si chiede quanto spesso la sociologia pecchi nel descrivere un mondo teorico scisso dalla realtà quotidiana.
Gran parte del merito sembra spetti a don Andrea, un giovane sacerdote che da qualche anno ha costituito un gruppo giovanile molto attivo che ha iniettato linfa all'interno del tronco della comunità parrocchiale e che svolge un gran numero di iniziative. La sua predica nella messa domenicale pone i fedeli davanti a tematiche e ad interrogativi non banali, non ci si trova di fronte a risposte preconcette ma ad una sorta di dialogo nel rispetto dei ruoli. L'esaltazione della novità e del messaggio rivoluzionario di Cristo, l'attenzione sulla pace, sul rispetto dell'altro e sulla fratellanza. L'uditorio è posto di fronte a suggerimenti letterari, al confronto con altre culture e tradizioni (citazioni di John Donne, Ernest Hemingway) o a brani di opere uomini di chiesa tra i più valenti (il cardinale Martini o don Tonino Bello) utilizzati allo scopo di spiegare gli avvenimenti che si svolgono nella nostra società.
E attorno questi giovani, felici e partecipi, che spesso la tv e la stampa dipingono come schiavi della società di massa, della generazione internet o di un mondo oramai sperso nel relativismo culturale ed etico. Giovani che proprio quest'anno hanno avuto il privilegio di visitare i luoghi santi di Israele e di confrontarsi con i fratelli maggiori, quegli ebrei che il concilio Vaticano II riabilitò dalla accusa di deicidio che per secoli aveva impedito un dialogo e confronto con una delle tre grandi religioni monoteiste.
E in un periodo nel quale la religione spesso viene brandita come una clava a giustificazione di mere ideologie che di religioso hanno ben poco è da rilevare l'importanza di iniziative che mirino al confronto, all'ascolto ed al rifiuto di ogni verità precostituita. E non è forse un caso che il risultato sia una fila interminabile al momento dell'Eucaristia, giovani, anziani, adulti, bambini assieme a cantare e a farsi parte sempre più di una comunità, serena e gioiosa.
Comunità che rappresenta un'occasione non banale di incontro e condivisione rispetto alle immagini stereotipate e alle polemiche sul nuovo protagonismo della Chiesa. Un protagonismo, sul quale si possono avere idee ed opinioni diverse, ma che spesso diviene oggetto di scontro a causa della strumentalizzazione di carattere politico da parte dei due principali schieramenti che spesso, poveri di proposte, speculano sulle posizioni della Chiesa sperando di cavarne risultati positivi dal punto di vista elettorale. Schieramenti che operano una reductio ad unum della Chiesa dimenticando che all'interno della comunità cattolica esistono diverse sensibilità e stati d'animo che non possono essere automatiacmente traslati sul piano elettorale. Il risultato del referendum sulla procreazione assistita di qualche tempo fa, di fronte come abbiamo precedentemente accennato ad una calo della pratica religiosa, sta lì ad indicarlo.
L'assistere alla messa a San Roberto, assieme alla compagnia di un così valido gruppo giovanile, può essere un momento di riflessione sulla nostra società e su quanto avvertiva poco più di 60 anni un filosofo laico come Benedetto Croce:"Perchè non possiamo non dirci cristiani".
venerdì 19 settembre 2008
OVERBOOKING
sabato 13 settembre 2008
DEDICATO
venerdì 12 settembre 2008
MALEGRIA
Da un blog dell'inviato di Repubblica, Dario Cresto-Dina:
"A Bologna quasi tutti ti si rivolgono con il tu. E’ bello, dà un senso di campagna, di grandi tavolate, di profumo di salame.
L’altra sorpresa, nei dieci minuti d’attesa per un taxi, sono due ragazzi che s’infilano in una cabina telefonica e parlano d’amore o di qualcosa che gli deve somigliare. Due in appena dieci minuti…Al tempo dei cellulari credevo non potesse succedere.
Il secondo avrà sedici o diciassette anni.
Grida nel telefono: voglio tornare single.
Quando esce gli chiedo come l’ha presa lei.
Gli ha detto: fallo, ma prima restituiscimi i cinquanta euro che ti ho prestato".
venerdì 22 agosto 2008
IL RESTO... MARCIA
Lo spunto per elzeviri e articolesse è giunto quando in Italia era notte piena e a Pechino piena mattinata grazie all'oro della 50 Km di marcia grazie ad un carabiniere altoatesino, Alex Schwarzer.
Ha letteralmente dominato la gara, ha fatto il Bolt, ha scoattato, è partito subito per primo, ha detto agli altri "e ora seguitemi", e ha passeggiato.
Durante la passeggiata, scocciato e annoiato perchè non aveva nessuno accanto a lui, ha cominciato a mostrare i bicipiti come Braccio di ferro, ha alzato i pugni al cielo e ha baciato a più riprese un braccialetto.
Ha fatto il tedesco, duro come la pietra, preciso, ma poi dentro lo stadio è crollato. una fontanella, lacrime a gargamella. non sembrava più di Vipiteno ma venire dal profondo sud, novella prefica. Lo psicodramma al microfono della Caporale; lei con il suo accento lievemente romano pieno di "cioè", "no", "vabbane" e lui che ha spiegato al paese intero il motivo delle sue lacrime con un'inflessione crucca.
Tutto racchiuso in quel fiocco nero portato sulla parte sinistra della canottiera, ricordo del nonno morto nel luglio scorso. Un pianto a dirotto, a singhiozzi, che ti prendeva al cuore, sincero, spontaneo per un nonno al quale Alex era molto affezionato.
Una situazione nuova, non banale, la stessa Caporale lo accarezzava perchè aveva proprio l'aria di un bambino spaurito e sperso in una cosa più grande di lui, quasi da piccolo Bambi.
Trovata la lucidità però ha detto "oggi non mi batteva neppure Superman". E di fronte alle domande insistite di chi gli chiedeva se il braccialetto di cui sopra non fosse dono della sua ragazza, la pattinatrice Carolina Kostner, lui pronto a rispondere:"Ma scusate,io vi ho mai chiesto niente sulle vostre mogli?".
Bisogna riguardare meglio la carta d'identità.
Alex non è nato a Vipiteno ma a Posillipo.
giovedì 21 agosto 2008
UN PRESIDENTE,C'E' SOLO UN PRESIDENTE /4
Ti sia lieve la terra Presidente, addio.
Da Il Messaggero di oggi l'articolo di Rita Sala:
"Non è esistito il nero, al funerale di Franco Sensi.
Non nera l’estate della Roma di fine agosto, ma luminosa, infuocata dalla luce di mezzogiorno.
Non nero il lutto. Come ha detto commossa Maria, la vedova, c’erano, «là fuori, quelli che stanno da ore sotto il sole».
E «quelli», i tifosi, hanno sfoggiato con orgoglio solo due colori, il giallo e il rosso, le tinte della squadra cui il Presidente ha regalato quindici anni di energia e, fra alti e bassi, di grandezza.
Non nera l’ala delle auto di ordinanza, né quella degli abiti di familiari e amici.
Nell’oceano d’ocra e amaranto creato dai fiori, dalle bandiere, dagli striscioni, dalle maglie e dalle sciarpe del popolo giallorosso, c’era invece il bianco.
Candidi i tralci di orchidee in boccio della corona del presidente della Lazio, Lotito.
Immacolati i guanti che i necrofori hanno infilato con cura, dito per dito, prima di toccare il feretro.
Candide le parole di monsignor Francesco Gioia, che ha commemorato Sensi passando per Eraclito e Heidegger: si è forse rivolto al Presidente laureato in matematica più che al leone ruggente cui la Roma si è riferita per tanto tempo.
Bianca la camicetta di Sabrina Ferilli, la madrina della Magica.
Bianca la lapide sulla tomba di marmo, al Verano, con sopra inciso un nome, una data di nascita e una di morte.
Nient’altro.
Ancora, il verde.
Quello degli occhi di Francesco Totti, il figlio maschio putativo che ieri, portando la bara verso la folla, ha reso il suo sguardo una fessura stretta. Forse per non piangere davanti al suo popolo.
Verdi e liquidi gli occhi di Fiorella, la mamma del Capitano, che abbracciando la vedova ha invece pianto, eccome.
Verde speranza, molto applaudita, la promessa del sindaco di Roma, Alemanno, di affrettare i tempi per la costruzione di uno stadio da intitolare al Presidente.
Non nera persino la pelle dei giocatori di colore. Baptista, che appena arrivato ha voluto portare a spalla il feretro, senza che affetto o gratitudine possano ancora legarlo a Franco Sensi, è sembrato d’oro liquido, di cioccolato fumante.
Non nera l’abbronzatura di Delvecchio (benché di sole, quest’estate, l’ex romanista ne abbia preso tanto): al Verano, Marco è sembrato pallido come un impiegato che non ha i soldi per andare al mare.
Il cordoglio per Franco Sensi ha fatto a meno dell’ombra.
Chiari i cori dei romanisti: di festa, di riconoscenza, di vittoria.
Chiara la dedica della squadra. Vincenzo Montella l’ha riassunta, leggendo con il groppo alla gola una lettera a nome di tutti, in due momenti luminosissimi: ti faremo sorridere là dove sei; non lasceremo mai soli te e la tua famiglia.
Non nero l’umore di Adriano Galliani, innaffiato al suo arrivo da qualche getto d’acqua minerale: sono cose che succedono, ha detto l’amministratore delegato del Milan, cose da niente.
Non neri i fischiati: Galliani stesso; Moratti simbolo dell’Inter stravincente; Cobolli Gigli; il gagliardetto del Milan.
Rossa, non nera, la vernice usata dai tifosi per scrivere sugli striscioni frasi come “Romanista con il cuore e con la mente, riposa in pace valoroso presidente”.
Giallorossa d’amore acceso la frase di Giovanni, sette anni, targato Roma dal berretto alle scarpe: «Ma lui ha insegnato tutto a sua figlia, vero?».
martedì 19 agosto 2008
UN PRESIDENTE, C'E' SOLO UN PRESIDENTE/3
lunedì 18 agosto 2008
UN PRESIDENTE, C'E' SOLO UN PRESIDENTE/ 2
"Ha mantenuto la sua ultima parola: «Finché vivo la Roma non la lascio».
Tutto il resto è bla bla bla.
Gliel’ha chiesta il mondo; sia i russi sia gli americani, però, hanno trovato un muro che la storia è riuscita ad abbattere, ma che il sentimento di un uomo ha tenuto alto. «Finché vivo la Roma non la lascio». Erano domande che non potevano avere risposta: la Roma chi è romanista non la vende mai, e mai mai mai se è stato tuo padre a fondarla, se l’hai vista nascere in culla. Piccolo e grande amore.
Aveva un anno Franco Sensi quando la Roma è nata. Hanno fatto tutto il percorso insieme. Si sono accompagnati come fanno le parole in una lettera: in quella che scrisse per il compleanno della società un anno fa disse: «Gli 80 anni della Roma sono i miei 80 anni».
Ecco perché oggi che è morto, Franco Sensi non muore: la Roma mica finisce, passano solo i giorni. E se c’è un modo per accompagnare un amore fino al termine della vita, il suo è stato il migliore: starle sempre accanto.Una volta (non era neanche un anno alla presidenza) Sensi, ultimo grande custode di una tradizione orale romanista che si sta spegnendo in urlaccia tele-radiofoniche, disse: «Mio padre oggi avrebbe più di cent’anni: non si è mai stancato di raccontare la Roma, e a me sembra di averli vissuti e rivissuti più volte, quei giorni e quei fatti».
Quasi per presentarsi parlò così "di giorni e fatti", di epoche, di pezzi d’epoche, e pezzi di racconti. Cioè di miti. Ma all’origine non ci sono superuomini, oracoli, dei o mostri, piuttosto nomi e cognomi conosciuti, erba di casa sua, i calzoncini corti che il papà indossava nella Pro Roma, il legno del comodino accanto al letto che era lo stesso di campo Testaccio (perché fu Re Silvio ad ordinarne i materiali per la costruzione).
E’ quando l’album delle figurine Panini è quello di famiglia, il sogno un’abitudine di condominio; la Roma, allora, che hai respirato e imparato, già solo per questo ti diventa tutto: oltre che padre, e mamma com’è per tutti, passione e lavoro, ambizione e cura, casa e stadio, ricordo e futuro, grande palcoscenico e insieme il tuo posto delle fragole.
Ecco perché ha sempre detto: «Finché vivo la Roma non la lascio».
Ecco perché non l’ha lasciata ancora, neanche oggi: oggi è mai.
Gliel’ha chiesta il mondo, i russi e gli americani, con gli aerei che hanno veramente volato tra New York e Mosca, ma lui aveva già scelto la Matematica (ci si è laureato) come mestiere: l’equazione era sempre la stessa. «La Roma è mia».
E basta.
Gliela chiedevano, ma erano domande che non potevano avere una risposta perché questa storia è nata da una domanda che non le aspettava: quel pomeriggio in cui lui, come Re Lear, riunì le donne della sua famiglia per chiedere consiglio sull’opportunità di comprarla, la Roma. Apparentemente affari, profondamente, cuore.
"Nothing", sir.
L’aveva già presa, era già sua. E’ stata sempre sua.
Anche troppo.
Per la Roma ci è anche morto.
Questa è la storia un amore pertinace, così tanto, così vero, che per lo stesso motivo Franco Sensi, nei suoi primi anni di guida, è stato anche il presidente più contestato della storia romanista.
Bla bla bla.
Pareva troppo stretto l’abbraccio tra presidente e società, addirittura solipsistico, pareva facesse rima soltanto con proprietà: "La Roma è mia". Era un’equazione senza risultati e basta. Vinceva la Lazio, vinceva l’antistoria, l’antimateria: come se bruciasse il legno di Testaccio.Ma Sensi costruiva in un mondo che soltanto si spettacolarizzava, metteva da parte quando di moda andava chi sperperava: erano favole semplici che nessuno più raccontava, la formica e la cicala.
Derby.
Come un vecchio ritornello che nessuno canta più.
Il derby per Sensi è stato il suo grande cimento da presidente perché dall’altra parte c’era Sergio Cragnotti che aveva costruito la Lazio più forte di sempre. Cragnotti è stato "nemico" di Sensi quanto e come la Lazio della Roma: quasi arrivati contemporaneamente alla presidenza, hanno costruito le proprie squadre con due filosofie non solo diverse, ma antitetiche. Rampante, manageriale, spumeggiante, iperspettacolare quella del laziale; artigianale, saggia, familiare, antica, romanesca, quella del romanista.
Alla fine è rimasto solo Sensi.
Alla fine il presidente ha avuto ragione su tutto.
Era stato bla bla bla perché aveva cacciato il mercante dal tempio, Luciano Moggi, che prese a male parole, lo mandò candidamente e testualmente affanculo, e pareva lesa maestà, e pareva il suicidio strategico, quasiun’irresponsabilità politica. Forse anche peggio quando parlò degli arbitri e di Carraro come di «un’associazione a delinquere».
Venne punito, multato, deferito e irriverito per questo: oggi gli si fanno gli editoriali di "bravo-bravissimo" soprattutto per questo, mentre trequarti degli arbitri e del Palazzinaccio loro hanno smesso perché erano corrotti, perché le partite non erano vere veramente, e la Juve le rubava, e pure il Milan faceva qualcosa che non doveva fare, mentre la Lazio si dileguava.
Era il calcio che schifo fa. Ci poteva giurare Franco Sensi e l’ha fatto: «Finché vivo la Roma non la lascio».
Il presidente bla bla bla ha mantenuto anche l’ultima parola. Come un vecchio ritornello che nessuno canta più, col colbacco a gennaio sotto la Curva Sud, l’urlo ragazzino al 3-3 di Totti, e il carabiniere che sorrideva vicino e Guido Paglia triste là sotto. E poi: «Chi ha segnato il ragazzino?».
Sì.
Come c’era un ragazzino quella notte di primavera sotto le scalette di un aereo che tornava a Fiumicino da Milano con una coppa, con gli aerei che continuano a volare tra New York e Mosca, aspettando un’altra notte, un’altra coppa.
E adesso magari su, con Agostino. Qualcosa sarà più chiaro.
Franco Sensi ha visto milioni di bandiere sventolargli davanti. Ha fatto la gente felice quel giorno al Circo Massimo, ma, soprattutto, ha avuto modo di guardare tutta quella felicità.
Un giorno racconteranno di persone arrampicate sugli alberi per una grande festa romanista, raccontando scopriranno che quelle persone erano veramente a milioni, che sono state per strada giorni, che c’erano uomini e donne fin sopra al Palatino, lì, sul colle dov’è nata Roma. Racconteranno.
Qualche stupido non ci crederà e, come quasi tutti oggi, dirà: show must go on.
Ma no, stavolta lo spettacolo non proseguisce.