mercoledì 20 giugno 2007

QUELLA SPORCA ULTIMA META



Da "La Stampa" del 20 giugno, un articolo del corrispondente da Parigi, Domenico Quirico:

"La sera del sei maggio, giorno del secondo turno delle presidenziali, nella sala ultrachic del «Fouquet's», crocevia dei nababbi ghiottoni, la festa era ormai avviatissima.

A fianco del presidente nuovo di zecca, Cécilià, la moglie, non c'era. Assenza assai notata, e rimasta misteriosa negli annali della République.

C'era, invece, un cranio lucidissimo che sormontava una faccia olfattiva, occhialini da professore e un fisico di chi ha sudato a lungo per schivare, senza danni, gli acchiappamenti con monumentali mediani di mischia.

Sì, proprio lui, Bernard Laporte, il selezionatore dei Quindici, la nazionale di rugby.

Il calcio in Francia è popolare, seguito, fa discutere, appassiona: ma il rugby è un'altra cosa, è qualcosa che si ama. Neppure nella terra degli All blacks o in Inghilterra dove è nato, poteva accadere che il selezionatore della nazionale, in carica, diventasse, ieri, segretario di Stato allo sport (da noi si direbbe sottosegretario), fosse autorevolmente governizzato.

Tradotto in italiano, è come se Lippi fosse stato nominato ministro due mesi prima del mondiale in Germania.Con una postilla ancor più originale: è stato nominato ma entrerà in carica solo a ottobre, primo caso nella storia della Francia.

Non mancano le buone ragioni. E' impegnatissimo: a immuscolire la squadra che deve (verbo seguito rigorosamente da un risoluto punto esclamativo) vincere il campionato del mondo che si giocherà in casa. Già ci si interroga, tra politica e sport: se il Segretario di Stato dovesse capitolare nella fase eliminatoria cosa succederà: una crisi di governo? Si dovrà procedere a un complicato rimpasto?Eppure Sarkozy non ha scelto a caso.

Perché la passione tra questo quarantunenne e la Francia è fremente, palpita come i grandi amori. Il paese dubita di sé, è in crisi di identità, si divide in tribù che si guardano in cagnesco? C'è Laporte con i suoi valori semplici che lo rassicura. E' come la definizione che dà del rugby: «vuole dire disciplina, solidarietà, rispetto dell'arbitro e degli sconfitti salutati dai vincitori».

Canonico, conventuale e rassicurante. A fare la fronda, inutilmente, sono rimasti solo detrattori nevrastenici, gli esteti del gioco, che non trovano da otti anni il suo rugby per nulla «champagne».

Anzi prolisso, mediocre, cabotante: quando gli altri Grandi sono in declino allora si vince, quando sono forti allora sono guai. Dicono che non ha «teorie», l'unica sua sublimazione tattica si chiamava «sistema dei blocchi», ovvero rapidità di esecuzione e dispersione della difesa avversaria. Bello, peccato che l'avesse copiata dagli australiani che la usavano da un anno.

Con i giocatori è una iena, sfinisce questi giganti a furia di pavlovismi. Ha vinto, certo, quattro tornei delle Sei Nazioni. Ma in semifinale dei mondiali del 2004 è stato umiliato dagli inglesi. I quindici hanno appena giocato un match di prova contro i neozelandesi; sconfitta con 51 punti di scarto, le mete fioccavano, una umiliazione.

Pensate che l'abbiano atteso all'aeroporto per chiedere spiegazioni? Niente affatto: signori, Laporte non si tocca, è la France. Anche come giocatore a Gaillac e a Bordeaux è stato un «medio», che è la peggiore condanna in uno sport dove prevale l'elegia e si parla dei giocatori come degli eroi di Omero. Niente da fare. Gli perdonano tutto. Essere suoi detrattori vuol dire vivere pericolosamente: perché annota nomi e cognomi, li aspetta in inboscata alle conferenze stampa.

I francesi adorano proprio le sue arrabbiature, i suoi furori biblici, le parolacce con cui urla strapazza predica. Nel 2002, dopo un Francia-Italia allo Stade de France, vinto ma non indimenticabile, si presentò in conferenza stampa; per smerigliare i giocatori una sola metafora: «Oggi mi hanno rotto i c...». Tiene d'occhio anche il pubblico, non certo per titillarlo, perché i fischi non gli piacciono. Nel febbraio 2006, avversario l'Irlanda, osarono fischiare il divino Michalak, il Pavarotti delle aperture. Microfoni aperti, obiettivi puntati, parla Laporte: «Tutti questi borghesi di merda, li scaraventerei sul terreno di gioco». «Ma le mie arrabbiature sono un grido di amore» sogghigna lui. Evidentemente gli credono.

Si difendono dai suoi assalti sgarbati come accade nelle dittature, con i soprannomi: agrodolci tipo «il Kaiser» e «il Cornac», ma anche cattivelli come «Ber l'emmerdeur» e «Eagle For» da pronunciare alla francese che vuol dire «bocca larga».

Laporte durante l'anno fa il selezionatore due giorni la settimana, nel weekend, quando va in giro a stilare pagelle dei suoi prediletti. Il lunedì lucida un altro motto: «Ho una passione e un mestiere, il rugby, ma non dimentico gli affari». Non è un problema di soldi, anche se i 7500 euro al mese che riceve come stipendio sono ben lontani dalle prebende del calcio.

E' una sorta di permanente bulemia, l'ossessione di vivere a duecento all’ora, una inappetente bisogno di successo. E' per questo che Sarkozy lo adora: «Gli affari sono la mia libertà, essere indipendente vuol dire restare se stesso». Così è diventato il cocco degli industriali: Laporte è un marchio, una faccia, una irradiazione da coprire d'oro. Il suo agente, Serge Benaim, è travolto dalle sponsorizzazioni, la penna con cui firma i contratti è in perenne ricerca di inchiostro: «Sono costretto a dire no, non ce la faccio più a soddisfare tutte le richieste, lo vorrebbero ovunque».

Il cranio lucido spunta dietro un rasoio a tre lame, ai telefonini, al cibo per cani, allo champagne, sovrintende il miracoloso imballaggio di un prosciutto che basta «placcare» per richiudere, spunta in tv, anima seminari, sforna conferenze all'università. Possiede ristoranti camping palestre due casinò vigneti (un vino del Gaillac porta il suo nome).

Tanto, troppo forse. Il fisco e i servizi di informazione si sono interessati alle sue attività.

Invano.

Nulla incrina il mito.

Laporte è la Francia".

1 commento:

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